Andrea Camilleri non ce l’ha fatta. Il maestro, nativo di Porto Empedocle, si è spento stamattina all’età di 93 anni. Era ricoverato da circa un mese all’ospedale Santo Spirito di Roma. Lo scorso 17 giugno era stato colpito da un arresto cardiaco da cui non si è mai ripreso. “Le condizioni sempre critiche di questi giorni si sono aggravate nelle ultime ore compromettendo le funzioni vitali – si legge nel bollettino dell’ospedale -. Per volontà del maestro e della famiglia le esequie saranno riservate. Verrà reso noto dove portare un ultimo omaggio”. Camilleri era nato il 6 settembre del 1925 a Porto Empedocle e il suo nome è legato indissolubilmente al personaggio del commissario Montalbano che tanto successo ha riscosso negli anni e dai cui romanzi sono stati tratti i film con Luca Zingaretti attore protagonista. Il cuoco dell’Alcyon è stato il suo ultimo scritto, nel 2019, edito da Sellerio Editore. Nell’ultima fase della sua vita era diventato ipovedente.

La sua lenta uscita di scena aveva spinto Pietrangelo Buttafuoco a costruirne un ritratto sui generis. Eccolo, ospite di Buttanissima.

Uno con la fantasia aperta come lui in queste ore – nel suo transito – non può che andarsene per i fatti propri che, nel caso specifico, son quelli del vecchio Andrea Camilleri. E scusate se poco.

Uno come lui – 93 anni – uno che da cieco ha visto ancora meglio, uno che si carica tutti i suoi acciacchi e può fare qualunque cosa, pure innamorarsi, può perfino prendersi a braccetto la morte.

Chiamarla a sé la morte, questo può fare, e farle fare uno di quei giri mirabolanti di ragionamenti in cui – come in una mano di ramino, come nel riavvolgere dell’impasto degli arancini – non si perde mai il filo, tanto l’ingranaggio del suo racconto è perfetto come un orologio.

Se ci fate caso, ovunque ci siano vecchi seduti a chiacchierare tra loro – all’ombra, davanti a un circolo in estate – c’è la morte. Osservateli seduti nei caffè, a corteggiare ancora le amiche e consumare leccornie delicate tipo semenza tostata, bibite zuccherate ma anche qualche birra, ebbene, fateci caso: accomodata con loro, sempre discreta, c’è sempre la morte.

A volte è anche dispettosa, la Morte: “Ma che cosa festeggi i compleanni, che diverti a fare” – è proprio lei a parlare – “se alla fine arrivo io e ti porto via?”.

Camilleri – come tutti gli uomini autentici – ha il senso del principio, del durante e dell’uscita di scena e allora pare di sentirla la sua voce, ferma, risponderle a tono alla signora Morte e quindi dirle: “E chi ti dice che non stia festeggiando proprio te, stronza!”.

Quel saper arrivare da lontano – da un’infanzia felice – guadagnandosi le medaglie della vecchiaia, e l’attesa del transito, è l’arte di una ben precisa educazione sentimentale.

È quella in cui i bambini capovolgono i sogni e la legge stessa della natura.

Chi nasce in certi posti – la Sicilia è uno di questi – non vede l’ora di diventare vecchio.

Il passo di corsa diventa quello della camminata, le cartucce a disposizione si esauriscono sparando e poi sparando ancora, i capelli diventano bianchi e tali restano, e non c’è cosmesi che possa riavvolgere il tempo e portare tutto indietro.

È la famosa età ambita da chi se ne fotte delle teorie – di qualunque senectute – e sa così è e non altrimenti. La notte, infatti, si prende il giorno; ci si affretta a diventare vecchi e il contrappasso è presto risolto: se ne guadagna in prestigio, in rispetto e nell’estensione stessa delle spalle, larghe abbastanza per caricarsi la vita degli altri e a tutti quanti – anche alle cose inutili, ai tanti tra loro – fargliela leggera.

Uno come lui è proprio un bambino di quelli che si ricordano esclusivamente solo di ciò che deve ancora accadere, per farne proprio il deposito delle cose perdute.

“Quando ero grande”, capita di sentir dire ai piccolini seduti in cerchio tra i loro giochi, “avevo un asino bello assai, e avevo anche una campagna con tanti alberi di melograno, e poi ancora avevo una fontana con la vasca larga per farci i tuffi… e avevo un figlio piccolo cui davo il permesso di sparare e di guidare la Giulietta perché quando io ero grande, avevo un fucile e pure la macchina”.

Uno come lui, vecchissimo – capofamiglia e patriarca di una nidiata di devoti – è un tale bimbo. E lo è ancora adesso che il bollettino medico lo definisce “non cosciente” in ragione di quella forgia, la felicità, che vuole tutti in gara verso il traguardo della vecchiaia per vederne l’effetto che fa da lontano, quando si chiama la vita e morte, invece – come in Vitti ‘na Crozza – solo Morte risponde.

Ed è proprio come quando si sta seduti in mezzo al manicomio di gioia – quando tutti portano una carezza, un augurio e un dono al più vecchio tra i vecchi – e lei, dispettosa, anzi, stronza, rumina qualche acidità.

Un tale bimbo impara dai propri vecchi l’arte dell’arrivare da lontano. Ed è da loro che s’impara a rispondere a tono alla vecchiaia, e dopodiché anche alla morte.

Chi si presenta da lontano, ritagliando lo spazio dove solo da vecchi, a passettini brevi – gattonando anche, aggrappandosi all’amore dei propri cari – si rincontrano i sorrisi, i baci e i bisbigli della felicità.

Un tale bimbo è uno la cui carne gli si asciuga addosso come fosse legno.

Osservatelo: sulla pelle vi si depositano i tratti scartavetrati di chissà quante ruggini, gli occhi si spengono e però il pensiero – la tenacia di un cervello mirabolante sempre di ragionamenti – come un ruggito riesce a rimbombare nella caverna dell’eterno.

Certo, Morte si presenta, ma lui risponde. A tono.