Non c’è un rapporto diretto tra le ignobili violenze sugli anziani ospiti di una struttura di Palermo e la scelta della Regione di lasciare quasi esclusivamente ai privati il settore di accoglienza e cura di donne e uomini fragili e soli. C’è una responsabilità precisa nella mancata vigilanza che lascia a persone senza scrupoli, protese verso la ricerca del lucro, una attività che impone delicata attitudine e specifiche competenze professionali. C’è, comunque, una colpa imperdonabile della politica siciliana che ha abbandonato l’assistenza alla terza età, lasciando al loro destino le strutture pubbliche che, in tutto il Paese, se ne sono fatte carico dal lontano 1890 fino al 2001.

Le Ipab – istituzioni pubbliche assistenza e beneficenza – in quegli anni erano più di 150, ospitavano all’incirca 2200 anziani e 1500 minori, davano lavoro a poco meno di 800 operatori a tempo indeterminato e a più del doppio a tempo determinato. Esse principalmente offrivano servizi di buona qualità, rispettando tutte le prescrizioni di legge che imponevano la presenza del geriatra, dell’infermiere, dell’assistente sociale, dell’operatore socio-sanitario e delle altre figure che concorrevano ad alleviare la condizione degli anziani. Quelle istituzioni erano governate da un presidente e da un consiglio di amministrazione in forma di volontariato e in rappresentanza dei comuni e della Regione – chi scrive ne ha presieduta una per alcuni anni – che integrava con propri contributi le rette degli assistiti, insufficienti, da sole, a garantire la copertura dei costi.

La Regione non ha mai legiferato per regolare il settore, com’è avvenuto nel resto del Paese, non ha scelto una modalità d’intervento all’interno del quadro normativo statuale e paradossalmente, chissà se in rispetto alla memoria del concittadino Francesco Crispi che, proprio nel 1890 diede vita alle Ipab, le ha lasciate giuridicamente in vita, facendole di fatto morire e incentivando, così, un mercato privato che spesso offre servizi inadeguati e talora utilizza metodi criminali in danno degli ospiti.

Nel 2000 il Parlamento ha approvato la legge che riordina il sistema dell’assistenza sociale e nell’anno successivo ha abolito i vecchi organismi crispini, indicando alle Regioni due possibili strade da imboccare per regolamentare il settore in forma più adeguata ai tempi: la creazione di enti privati con personalità giuridica riconosciuta, in modo che fossero, in ogni caso, sottoposti a controlli, o di aziende per i servizi alle persone. Davanti a questo bivio, come l’asino del famoso filosofo francese, la Sicilia non ha saputo scegliere e, nell’indecisione, questa volta a morire non è stato l’asino ma le istituzioni di assistenza.

I governi che si sono succeduti e l’Assemblea, in vent’anni, non hanno ritenuto di compiere una scelta all’interno della cornice offerta dalla legislazione nazionale né di adottare soluzioni proprie in ragione della competenza esclusiva.

Tutti coloro che nel tempo hanno guidato l’assessorato preposto al ramo, hanno formulato ipotesi di legge, proclamando di ognuna che era quella giusta e che sarebbe stata sicuramente approvata dall’Assemblea. Poi non è successo nulla. La Regione non ha mai trovato il tempo di occuparsi, peraltro, del terzo settore, degli enti no profit, che, in tutto il Paese, sono poco meno di 360 mila, hanno 850 mila dipendenti e si avvalgono di cinque milioni e mezzo di volontari. La legge nazionale che ha regolamentato quell’ambito sempre più rilevante nella nostra economia, con una presenza crescente sotto forma di welfare privato che integra quello pubblico, risale al 2016 e prevede il sostegno finanziario da parte dello Stato. La Regione, in attesa di una propria legge più volte annunciata, si limita ad assegnare alle strutture che operano nell’Isola fondi esigui attraverso la cosiddetta tabella H.

Le Ipab di Crispi, intanto, sopravvivono solo nella sua terra, ridotte a poco più di venti. Tutte le altre si sono estinte. I lavoratori, da anni privi di retribuzione, sono stati abbandonati a se stessi, gli edifici, spesso di pregio architettonico, lasciati al degrado. Gli anziani in genere e ancor più quelli che non possono essere accuditi nelle loro famiglie, non hanno voce in capitolo, non sono una forza organizzata né un gruppo di pressione. In questi tempi non rappresentano che una “categoria a rischio”, una serie statistica per una tragica contabilità. Al di là della pandemia, in alcuni casi, purtroppo frequenti, sono vittime di ignobili sfruttatori che agiscono senza controlli e nella indifferenza di chi sarebbe dovuto ormai da molti anni intervenire per disciplinare il settore.