L’assessore Armao ne ha combinata un’altra: la nomina, in totale autonomia, di una task force per decidere le sorti di una quota del Pnrr assegnata alla Sicilia (266 milioni relativi a infrastrutture, opere pubbliche, digitalizzazione) ha fatto storcere il naso a mezza giunta e buttato un’ombra sulla gestione di Nello Musumeci, che è ancora una volta è vittima della sua brama: affidare la gestione della cassaforte al proprio vice. Evitando di mettere il becco in cose che non gli appartengono (il governatore è allergico a bilanci e finanze). Ma tutto ciò, a un anno dalle elezioni, ha inevitabili riflessi sugli altri componenti del governo. Per non parlare di partiti e gruppi parlamentari, rimasti totalmente all’oscuro della ‘manovra’ di Armao, che è stata appresa dai giornali e a cose fatte.

Ed è qui che si torna al peccato originario di questa legislatura: lo schiacciamento di Musumeci su Armao, nominato al governo da Silvio Berlusconi in persona – così dice lui – e già inviso a tanti per non essere passato da una consultazione elettorale. Il vice calato dal cielo. L’ego di Armao, unito alle incertezze del presidente della Regione, ha consegnato alla Sicilia quattro anni di instabilità: politica, dato che l’assessore coi suoi comportamenti ha finito per erigere un muro fra governo e parlamento, oltre che nei confronti di Forza Italia; contabile, dal momento che le questioni irrisolte – a partire dalle “liti” con la Corte dei Conti e con palazzo Chigi – sono tutte sul tavolo. E talvolta si sono persino aggravate (ma tanto c’è sempre la scusa del governo Crocetta e degli ultimi trent’anni di “allegra gestione”).

Ma andiamo con ordine. Armao, uomo indicato dal Cav. ha avuto il (de)merito di trascinare Musumeci sempre più lontano da Forza Italia. A causa dei continui screzi con Gianfranco Micciché, leader dei berluscones nell’Isola, e con l’intero gruppo parlamentare, che non l’ha mai riconosciuto a pieno. Armao, dall’interno della trincea, ha scavato un solco profondo che sembrava aver allontanato Musumeci e Miccichè in maniera insanabile. E solo nell’ultimo periodo ha teso una mano al presidente dell’Ars, siglando una tregua per il quieto vivere. Col suo atteggiamento spocchioso, però, ha rappresentato un limite all’azione politica del governatore. Se persino assessori silenti e allineati come Lagalla e Falcone, per la vicenda della task force, hanno deciso di metterlo nel mirino, vuol dire che il limite è stato superato. Armao fa e disfa per sé: nella cabina di regia (“E’ solo un gruppo di studio che mi aiuterà a studiare i documenti”, ha minimizzato), l’assessore ha inserito uomini e donne di fiducia, spesso del suo stesso gabinetto. Ma siccome da quel gruppo di studio passerà la bellezza di 266 milioni, non tutti sono disposti ad ingoiare il rospo. Specie alla vigilia dell’ultimo anno di legislatura, che fa da preludio alla campagna elettorale.

La delega in bianco assegnatagli da Musumeci – una specie di premio alla carriera – non è motivata (non può esserlo) dai risultati portati a casa da Armao in questi quattro anni. L’ultima (e unica) frizione fra i due risale a fine 2019, quando la Corte dei Conti fece venire a galla gli errori contabili in capo ai suoi dipartimenti: fu allora che Musumeci decise di affiancare all’assessore una società per l’accertamento dei residui (la Kibernetes srl) e un “esperto di tagli”, l’ex assessore al Comune di Caltagirone, Massimo Giaconia, per individuare “eventuali diseconomie”. In assenza di risultati – i buchi sono ricomparsi anche dopo – si è deciso di andare avanti con Armao e la sua struttura.

Che però, alla vigilia dell’ultima parifica, ne hanno combinata un’altra: la presenza di 319 milioni di residui attivi – cioè di poste di Bilancio non opportunamente cancellate – che hanno costretto la giunta a ritirare il documento in autotutela e rallentare il processo di accertamento della spesa da parte della Corte dei Conti. Non che l’ultima parifica abbia portato in dote risultati straordinari: mentre Musumeci in un comunicato diceva di “aver voltato pagina”, la magistratura consegnava una relazione contenente una sfilza di errori, tutti imputabili al suo governo. Ergo, al suo assessore. Dalla bocciatura del Conto economico e dello Stato patrimoniale, passando per un’irregolarità (da 315 milioni) nel Fondo contenziosi. Fino a un nuovo disavanzo (da 449 milioni). I bilanci della Regione sono come la groviera: e sarà utile un altro passaggio di fronte alla Corte dei Conti in composizione speciale, a Roma, per trovare un punto di caduta. E altre giustificazioni.

Quelle che non sono mancate di fronte ai tagli paventati al Bilancio triennale 2021-23 (che ha già costretto il governo a una variazione da 65 milioni per il 2021: spetta all’aula approvare entro l’anno). Armao, presentandosi a Sala d’Ercole, aveva spiegato che era tutto apposto. E che il nuovo accordo con lo Stato sul contributo alla finanza pubblica – cioè i soldi da versare ogni anno a Roma – sarebbe stato sigillato entro settembre. Ma secondo un ex deputato della maggioranza, l’on. Danilo Lo Giudice, “Gaetano Armao conferma la propria inadeguatezza tecnica, ma anche etica ad occupare il posto di assessore regionale, visto che mente sapendo di mentire sulla situazione del bilancio. Riesce persino a contraddire sé stesso all’interno della stessa frase, quando dice di essere pronto a chiudere il bilancio (il prossimo, ndr) e allo stesso tempo afferma di dover “negoziare” con il governo nazionale l’importo da versare allo Stato come concorso alla finanza pubblica. Peccato però che quell’importo sia già stabilito nell’accordo fra governo nazionale e governo regionale sul debito della Sicilia”. Il documento a cui si riferisce Lo Giudice è l’accordo Stato-Regione del gennaio scorso, che ha permesso alla Sicilia di spalmare in dieci anni un mega disavanzo con lo Stato. Lo Giudice è la ‘spalla politica’ di Cateno De Luca, sindaco di Messina, con cui lo stesso Armao di recente ha aperto un altro fronte di guerra (un po’ volgarotto).

L’assessore, nel prossimo tavolo romano (il tavolo dei tavoli, stando alle premesse), vorrebbe ottenere ciò che non ha mai ottenuto in quattro anni: ossia il riconoscimento di alcune attuazioni statutarie che garantirebbero alla Sicilia risorse economiche aggiuntive. Ad esempio, sul principio dell’insularità: secondo gli uffici di Armao è una tassa da sei miliardi l’anno. O, perché no, sul gettito Iva e Irpef. O sulle imposte di produzione. Una serie di temi che “sorvolano” le cose pratiche e si iscrivono alle ambizioni celestiali del vice-presidente. Le stesse contenute nelle ultime Leggi di stabilità, specie quella del 2020. La cosiddetta Finanziaria di cartone costruita sui fondi immaginari (i Poc), con alcune misure che tuttora – un anno e mezzo dopo – rimangono inattuate.

Mentre l’ultima manovra “lacrime e sangue” è costata all’amatissimo braccio destro di Musumeci una serie di bocciature umilianti: dall’articolo sulla BEI (con la previsione di un milione e mezzo destinate a “consulenze”, affossata dal parlamento) a quello sulle partecipate, che prevedeva il controllo “sugli enti, istituti e aziende sottoposte a tutela e vigilanza regionale”, tramite professionisti esterni incaricati dalla Ragioneria generale. E’ venuta meno anche la proposta di affidare a Irfis il supporto tecnico in favore dell’amministrazione regionale. Ed è caduta nel vuoto quella denominata “Ritorno in Sicilia” (è la seconda volta che accade), che si proponeva di riconoscere delle agevolazioni per chi avesse trasferito in Sicilia la propria residenza fiscale. Stroncature in serie da parte di un parlamento che ha assistito a fin troppi soprusi. E ha deciso di dire basta.

Armao è lo stesso che aveva promesso di alleggerire la spesa delle partecipate (come richiesto da Roma nell’ultimo accordo) e completare la liquidazione degli enti in dismissione; è lo stesso che si è reso co-protagonista dei blackout informatici, tramite l’Arit (il dipartimento per l’innovazione tecnologica), come accadde per il click day del Bonus Sicilia (poi cancellato); è lo stesso che non ritrovava la password smarrita per accedere al server della Spi e leggere i dati dell’ultimo censimento immobiliare (risultato una “truffa” da 110 milioni per le casse della Regione); è lo stesso che non riesce a organizzarne uno nuovo. Eppure Musumeci se lo tiene: onorando un pactum sceleris che lo ha già portato a sbattere ripetutamente. Ci mancava pure la task force.