Salvi grazie a una sinfonia, riscattati da un’opera lirica, redenti in virtù di una suite o di una jam session: l’Isola del post-Covid, la Sicilia uscita per gran parte indenne dalla peste contemporanea, rinasce a suon di musica. Mentre altre forme d’arte – il teatro di prosa, ad esempio – arrancano,  balbettano, s’interrogano ancora, segnano il passo, al Massimo di Palermo si commissionano nuove partiture e si sperimentano commistioni ardite (anche nelle nuove forme contenitivo-scenografiche di Roberto Andò e del fidato Gianni Carluccio), l’Orchestra Sinfonica Siciliana viaggia spedita tra le prove aperte dei concerti con i quali dal 19 luglio sarà protagonista al teatro antico di Taormina in un ventaglio di proposte che vanno da Beethoven al compianto Morricone e perfino l’Inda, a Siracusa, con una virata temporanea (ma ben pensata) dal suo precipuo mandato, recupera quel pubblico che può (un decimo di quello solitamente consentitogli), orfano dei grandi tragici dell’antichità, inaugurando un cartellone «d’emergenza» con nuove pagine affidate all’Oscar Nicola Piovani che vedono tra gli interpreti Tosca.

In una situazione di desolata inedia, con il turismo che langue nonostante le promesse vaghe di un governo regionale ancor più vago delle sue promesse, con le attività produttive messe al muro dal prolungato stop e per rimettere in marcia le quali nessuno alza un dito, con un terziario che tarda a progettare e scompare nelle sabbie mobili dell’improvvisazione, con le opere pubbliche e le infrastrutture ancor più dimenticate se non quando alti lai devono levarsi verso la crudele smemoratezza di Roma, la musica sembra non tanto l’unica panacea possibile, l’esclusivo lenimento spalmabile, il solo spiraglio di luce verso l’uscita, la prima lama di sole nell’ardua, faticosa risalita dall’abisso quanto l’inimitabile fischio di ripartenza, il singolare invito a salire di nuovo “in carrozza!”, l’isolato barlume di inventiva, il segno distinto e chissà perché non replicabile (o se volete il modello) di capacità organizzativa, in una parola, anzi in una parola e un verbo, il paradigma del fare.

Ora l’attestato di archetipica, incomparabile, impareggiabile genialità nessuno si è sognato di attribuirlo a Giambrone, Marcellino e Calbi (per citare i tre sovrintendenti delle istituzioni citate all’inizio a mo’ d’esempio: ma altri ce ne saranno di sicuro che magari in piccolo li avranno copiati, relegati magari a una breve di giornale o a tre righe negli appuntamenti dei siti web): hanno pensato, progettato, organizzato – dando un’occhiata anche ai conti, si suppone, languenti in virtù dell’imprevista catastrofe – e dunque proposto, offerto, messo sul piatto. Niente di più semplice, in fondo, di più pragmatico, al di là di cavilli burocratici, di lacci e lacciuoli, di convenienze e inconvenienze (di sicuro anche all’interno degli organismi stessi che governano). Arrotolandosi le maniche della camicia. Hanno dato il “la”, la musica è partita e il pubblico ne ha goduto e continuerà a goderne.

Un modello virtuoso che forse qualcun altro dovrebbe studiare o soltanto, applicare in un copia e incolla apportando poi le dovute modifiche. Perché un infinito presente – fare – possa sostituire la terza persona singolare di un futuro semplice – diventerà – che rischia di restare la terza persona singolare di un futuro semplice in saecula saeculorum.