La preghiera di Claudio Fava, pubblicata sui social e intitolata “Libera nos”, ha avuto un primo effetto: spaccare l’antimafia. Che in realtà non ha mai trovato pace e galleggia tra il fronte dell’impegno e della resistenza civile, e quello, un po’ più burlesque, di inni sacri e contenuti da talk show. Sarà sempre così (forse). Eppure il presidente della commissione regionale Antimafia, ha tentato di colmare un gap. Di proporre, senza imporre, la sua visione delle cose: risparmiateci – è il senso del suo discorso – “preghiere, messe in suffragio, commemorazioni, navi della legalità”; liberateci “dalle interviste ai parenti delle vittime” e “dalle parole false della nostra consolazione: eroi, legalità, antimafia, servitori dello Stato”. Ma soprattutto, ha chiesto Fava, “seppelliamo i morti, una volta per tutte”. Il messaggio, recapitato alla vigilia della ricorrenza di via D’Amelio, dove persero la vita il giudice Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, ha fatto saltare sulla sedia Salvatore, il fratello di Paolo: “Prima di seppellire i morti bisogna che ci sia verità e giustizia – ha affermato dalle colonne di ‘Repubblica’ -. Fava mi lascia di stucco. Le ferite che si sono aperte 28 anni fa non si sono ancora richiuse”.

Presidente Fava, le parole di Salvatore Borsellino hanno un senso.

“Io non sono d’accordo. Noi abbiamo il diritto di pretendere la verità, e chi è in condizione di fornircela ha il dovere di darci tutti gli strumenti per ottenerla. Mi rendo conto che il senso della mia affermazione è complicato da comprendere, ma “seppellire i morti” è un’altra cosa: non vuol dire dimenticare le ragioni o smarrire il senso della verità, o perdere memoria. E’ cominciare a ricordare senza passare attraverso la liturgia del lutto, se ne siamo capaci”.

Maria Falcone, invece, sostiene che l’esercizio della memoria passi anche dai momenti di partecipazione collettiva. Come avviene ogni anno il 23 maggio e il 19 luglio.

“Questi momenti di partecipazione, una volta l’anno, diventano solo una liturgia. Il ricordo dei morti è una questione che interroga la nostra coscienza. Bisogna provare a riprendersi la loro memoria di vita. Costruire con loro un rapporto che non sia più di cerimonia, di lamentazioni, di lutto. Ricordarsi come vissero, e non soltanto come morirono. Togliere, eliminare, sopprimere tutta una serie di luoghi comuni consolatori, ma falsi. I ‘parenti delle vittime’ sono una categoria da abolire: sotto il profilo dell’immagine pubblica, tutti siamo orfani di quelle vite. Gli italiani sono stati privati di testimonianze, esperienze, capacità, professionalità. La mia riflessione non voleva turbare i sonni della signora Falcone, ma rivendico di poter ricordare mio padre come meglio credo. Non da “figlio di” e per come morì. Seppellire vuol dire affrontare la vita”.

Quali altre cose bisogna abolire da questa retorica?

“La parola antimafia. Così come viene utilizzata – cioè come uno scudiscio, una scimitarra o un biglietto da visita – è diventata logora e falsa. Restano gli atti, i fatti, i comportamenti, non le  etichette. Sono stufo degli scortati che piangono nei salotti televisivi davanti alle telecamere, sono stufo di questa retorica che ormai si è costruita ed è diventata una sorta di sudario che comprime e opprime ogni ragionamento. Sono stufo della mancanza di sobrietà verso questi morti”.

Non crede che per i giovani sia necessario un esempio “visivo” per capire la storia e l’insegnamento di Paolo Borsellino, di Giovanni Falcone o di Giuseppe Fava?

“Se vogliamo ricordare Giuseppe Fava, la soluzione non è portarli il 5 gennaio davanti alla sua lapide, con la bandiera in mano. Ma insegnare ai ragazzi la professione del giornalista, o quanto sia fondamentale la libertà o l’autonomia per chi fa quel mestiere. Non sto chiedendo di abolire il dovere della memoria, ma di dargli una dimensione meno ripetitiva, meno liturgica, meno commemorativa. Che sia più densa di senso, di significati, di verità”.

Lei ha scritto che “l’unica prova per esser degni di quei morti” è “stare dentro la vita”.  Bisogna smettere di parlarne?

“Parlare sempre della morte diventa un modo per nascondersi dietro quella parola. Per continuare a tenerli in mezzo a noi senza, però, dargli voce. Dimenticandosi di ciò che fecero e ciò che furono. Questo lo costruisci giorno per giorno. Ai mille bambini che arrivano ogni anno a Palermo con la nave della legalità, non bisogna parlare di ‘eroi’, ma insegnare la normalità di un mestiere come quello del giudice”.

L’ultima frontiera dell’antimafia è l’idolatria per questo o quel magistrato, questo o quel giornalista. Sembra quasi un atto di fede, come per la propria squadra del cuore.

“Io sono allergico alle mitizzazioni e alle mitologie, a questo bisogno di santificare e onorare, di avere sempre una divinità a cui riconoscere il diritto dell’infallibilità. Tutti sono fallibili. I giornalisti, i giudici, i politici, i sindacalisti, anche i più esposti. L’idea che ci sia qualcuno senza macchia e senza paura, qualunque cosa faccia, è un’idea malata. Con gli atti di fede non cambi le cose e non sconfiggi la mafia. Io di errori ne ho fatti decine, centinaia. Ma se un magistrato sbaglia, pretendo di poter dire che ha sbagliato senza che mi si accusi di aver consumato un atto di blasfemia”.

Qualche giorno fa ha illustrato all’Ars la relazione conclusiva sul depistaggio di via D’Amelio. E’ davvero il più grande depistaggio della storia d’Italia?

“Certamente è il più rozzo. Sarebbe bastato fare il proprio dovere con un briciolo di accortezza in più e senza ansie di carriera, per rendersi conto che i verbali dell’interrogatorio del confronto fra tre pentiti e Scarantino, che sbugiardavano Scarantino, avrebbero posto fine a quel depistaggio. Invece sono stati nascosti per due anni e mezzo. E’ una delle cento contraddizioni di un depistaggio fatto male: in cui la direzione delle indagini viene subito assegnata al Sisde, in cui ci si fida del profilo criminale di Scarantino, mettendo sulle spalle di questo poveraccio quattro quarti di nobiltà mafiosa. E’ stato maldestro e, allo stesso tempo grave, per ciò che ha rappresentato quella strage e per il movente che ci sta dietro. Che non è quello ridicolo, patetico, fittizio venuto fuori dai processi imbeccati da Scarantino: cioè la vendetta mafiosa. Questa è una tesi ridicola. Dietro l’attentato a Borsellino c’è anche – ma non solo – l’ombra di apparati dello Stato che quella morte l’hanno voluta perché era una necessità dal punto di vista strategico”.

Qualche giorno fa, durante la relazione di metà mandato, Musumeci ha detto che i suoi ammiccamenti e le sue insinuazioni, rappresentano la “miglior tradizione della peggiore antimafia”. Una beffa alla luce delle sue recenti affermazioni.

“Musumeci ha paura della propria ombra. Sa perfettamente che io non faccio ammiccamenti, ma nomi e cognomi. Da due anni faccio domande, e da due anni Musumeci scappa. I miei nomi e cognomi sono Catanzaro, Proto, Leonardi. Invece di dirmi che cosa il governo intende fare su alcune vicende aperte come Siculiana, Oikos e Sicula Trasporti, il presidente della Regione butta la palla in tribuna e dice che io ammicco. Non l’ho mai fatto nella mia vita”.

Ha anche detto che è un censore e che in politica non esiste una “superiorità genetica”.

“Sono solo frasi ad effetto, come quelle dei Baci Perugina. Cosa intende dire, quale messaggio paramafioso mi sta lanciando? Fra l’altro, nel dibattito della scorsa volta, non si parlava di mafia e antimafia. Avevo posto alcune domande legittime sull’operato reticente di questo governo in tema di rifiuti. Tutto il resto sono chiacchiere”.