L’età del rimbambimento. Che non è senescenza dovuta a invecchiamento e a decadimento delle facoltà mentali. O almeno non soltanto quella.

L’era del rimbambimento è oggi. Hic et nunc, in tutto l’Occidente. Sono le rughe di un’epoca che da anni celebra la sua fine come fosse eroica. E invece ormai è giunta al punto di raccontarsi col fiato corto del “pensiero unico”, che è la negazione della complessità dell’esistente. Un manicheismo ipocrita e occhiuto applicato alla realtà. Con sprezzo del ridicolo. Manco fosse l’Inquisizione.

Solo così si spiega il protocollo – o la narrazione intorno al protocollo, fa lo stesso – sulla “vigile attesa” come linea guida per contrastare l’insorgere di una malattia. Attesa di che, esattamente? E noi che dopo due anni attendiamo ancora di sapere cosa è successo. Ma è top secret.

Se il ministro italiano dell’Istruzione sostiene che l’uso delle mascherina in classe “ha un valore educativo”, quando gli stessi ragazzi all’uscita delle scuole possono toglierla e andare senza per i negozi, i locali, le pizzerie, uno, pur incompetente, si chiede se le regole siano concepite come un atto di fede o per rimbambimento collettivo. E ci si mette pure il presidente Draghi che va a far visita alle scuole con tanto di foto di gruppo. Lui senza mascherina contornato di alunni mascherati.

Per principio noi italiani siamo specialisti nel metodo “due pesi e due misure”. Senza scomodare gli animali della fattoria di Orwell, fin troppo citato in questi tempi di emergenza continua. In pochi anni siamo passati senza soluzione di continuità dalla “grande recessione economica” a una crisi sociale senza precedenti. Peggiorata con la pandemia. Che non è neppure finita ma annuncia un’altra pandemia. Che annuncia una carestia. Mentre incombe il cambiamento climatico. Che rischia di pregiudicare le stesse condizioni di vita sul pianeta. Sempre che non sia la guerra d’Ucraina a provvedere all’estinzione della specie. Un campionario mondiale di fenomenologia della sfiga.

Metti Biden, per esempio. Il presidente degli Stati Uniti che scendendo per li rami è anche il nostro Commander in Chief. Quello, per intenderci, con la valigetta nucleare appresso. In Italia c’è chi lo chiama RimbamBiden con riferimento a quanto si vede in tv. Capita che parlando alla nazione sulla guerra d’Ucraina, un notevole impegno economico anche per gli Usa, Biden confonda ucraini con iraniani. Capita che si incanti e perda il filo del discorso, che tenda la mano a lungo e di frequente a un amico immaginario, che si addormenti sul più bello di summit planetari, che emetta gas intestinali alla presenza di Carlo e Camilla d’Inghilterra, che stenti a mantenere l’andatura senza sbandare o senza inciampare. Da più parti, siamo nel democratico Occidente, si sollevano dubbi sullo stato della sua senilità. Mai si arriva a mettere in dubbio il ruolo e la carica. Ci mancherebbe. E’ stato eletto nel 2020 con il 51 per cento di voti.

Come nella favola di Andersen la vulgata preferisce narrare i vestiti dell’imperatore. E solo la satira può avere occhi da bambino e dichiarare che il re è nudo. Che poi Biden non è proprio King Lear per saggezza e carisma. Negli Stati Uniti il suo indice di gradimento continua a scendere. Meno di un terzo degli americani lo appoggia. Nessuno dimentica la precipitosa ritirata neppure un anno fa dall’Afghanistan, dove gli Usa hanno lasciato in braghe di tela perfino i loro più stretti collaboratori. E il coinvolgimento diretto negli affari interni dell’Ucraina, attraverso la sottosegretaria di stato Victoria Nuland già nel 2014 e attraverso i commerci del figlio Hunter Biden.

Chissà perché proprio da questa parte dell’Oceano, Biden trova tutti gli appoggi necessari alle sue politiche in armi. E a proposito di armamenti che Biden ama esportare, ci deve essere davvero una legge del contrappasso per cui ragazzotti di orientamento nazi o di inclinazione gender fluid gli mettono a ferro e a fuoco supermercati e scuole nel suo paese. Più di 30 morti, vittime per caso, in una settimana a maggio.

In materia di rimbambimento, metti il World Economic Forum di Davos. E il curioso caso di Henry Kissinger. Ex segretario di stato Usa, premio Nobel per la Pace nel 1973, Kissinger, ebreo tedesco naturalizzato americano, è ancora oggi leggenda. A 99 anni compiuti il 27 maggio. Con una moquette sulla pancia alta tre dita. Come la può avere solo chi ha attraversato un secolo di storia, tirando sempre le fila degli accadimenti da burattinaio e non da burattino.

Kissinger è sempre stato in ogni dove succedesse qualcosa. La Germania del ’45, il Vietnam, la Guerra del Kippur, il golpe di Pinochet in Cile (non in Venezuela come ha detto il nostro ministro degli Esteri, ma di certo era un lapsus), l’Argentina, l’Angola, il Mozambico, l’invasione indonesiana di Timor Est, fino a presiedere la commissione di inchiesta sugli attentati dell’11 settembre 2001 da cui poi si è dimesso. Un prestigio internazionale un po’intaccato dalle interferenze, anche militari, su governi e politici stranieri. Con l’obiettivo di salvaguardare il potere degli Stati Uniti nel mondo.

Ecco uno così, a un età in cui non si ha più nulla da perdere o da guadagnare, parla a Davos intorno al conflitto Russia-Ucraina e dice senza giri di parole che Kiev deve “avviare negoziati prima che si creino rivolte e tensioni che non sarà facile superare”.

Che l’Ucraina deve rinunciare a qualche territorio per la pace e che l’Occidente non dovrebbe cercare di infliggere una sconfitta alla Russia, che da sempre è “parte dell’Europa”. Anzi. Sarebbe “un errore fatale per l’Occidente perdere di vista il rapporto di lungo termine con Mosca. Pena un’alleanza permanente e sempre più forte di quest’ultima con la Cina”.

E’ saggia la lezione del patriarca della diplomazia americana? Di certo è consequenziale. Già nel 2014 Kissinger, Maestro con maiuscola di realpolitik, aveva criticato gli interventi Usa in Ucraina invitando a “favorire l’intesa fra le due parti dell’Ucraina: quella nazionalista e quella russofona. Non il dominio di una fazione sull’altra. Spingere l’Ucraina a far parte della Nato conduce necessariamente alla guerra”.

Immaginate lo sconcerto dalle parti di Davos. Più di duemila invitati provenienti da tutto il mondo, una cinquantina di capi di stato e di governo, oltre 250 ministri. Un’edizione volutamente senza Putin, che pure è stato gradito ospite del Forum nel passato. Senza i russi. Perché è loro l’incipit degli invasori. E da lì non si schiodano. Anche se perfino il New York Times ha messo nero su bianco la necessità di una “pace negoziata”. Con un’annotazione: “per quanto le forze ucraine diano del filo da torcere alla Russia, una netta e decisiva vittoria militare non è realistica”.

Ma a Davos, nel ventre del Forum economico globale di Klaus Schwab, il teorico ultraottantenne delle strategie necessarie alla governance mondiale nell’ottica del nuovo mondo, del “Great Reset” favorito anche dalla pandemia, le parole di Kissinger devono essere rimbombate come un ritorno al passato. Diciamolo pure, un segno di rimbambimento. D’altra parte non basta essere premi Nobel per conservare integre le facoltà mentali in tarda età. Vedi il caso Montagnier.

Immaginate, dunque, le élite di Davos, il gotha del capitalismo mondiale. Quello che nei due anni che abbiamo consacrato al Covid è riuscito ad aumentare a dismisura la propria ricchezza. Nonostante i 263 milioni di persone che contemporaneamente sono sprofondate sotto la soglia della povertà estrema. Secondo Forbes sono 573 i nuovi miliardari prodotti dalla pandemia. I quali detengono il 13,9 per cento del Pil mondiale, una quota più che triplicata rispetto al 4,4 per cento dell’anno 2000.

Immaginate questi politici, economisti, banchieri, capitani d’industria come Albert Bourla, Ceo di Pfizer, miliardari come George Soros o Bill Gates. I quali, essendo americani, sono filantropi per definizione e non hanno le mani in pasta nell’esercizio del potere come i russi, oligarchi anch’essi per definizione.

A questa platea abituata ad accumulare profitto parla Kissinger, veterano per età ed esperienza. E dice loro sulla guerra d’Ucraina: “ora basta, fermatevi finché potete”.

Ma per Zelensky uno come Kissinger è fuori dal tempo attuale. Con un pizzico di perfidia gli ha ricordato che sembrava parlasse alla Conferenza di Monaco del 1938, acquiescente con le rivendicazioni di Hitler sulle enclave di lingua e etnia tedesca incuneate ai confini della Germania, e non in Svizzera nel 2022. Zelensky, l’eroe della resistenza ucraina, quello che combatte con tenacia e passione il suo personale “World Wide War Tour” in tv. E pazienza per il suo popolo che in guerra c’è davvero.

Ha rincarato la dose Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea. Lei sta dall’altra parte rispetto a Kissinger: “L’Ucraina deve vincere questa guerra”. E l’Unione europea “farà di tutto perché questo avvenga”. Ha sottolineato proprio il verbo: “deve”. Come se volere, potere e dovere andassero di pari passo.

Una pasionaria. Con elmetto e baionetta. Più o meno come Draghi, Letta (non a caso ribattezzato BaionLetta) e Gigino Di Maio, il nostro ministro degli Esteri, unico nel suo genere. Il quale Di Maio ha presentato al suo omologo russo, il severo Sergej Lavrov, un piano di pace approntato dalla Farnesina che ha destato ilarità: “per il livello di comprensione che gli autori di questa iniziativa hanno della situazione, per la loro conoscenza dell’argomento, per la storia di questa questione”.

Certo, ognuno tira l’acqua al suo mulino. Ma dopo aver definito il piano della Farnesina “non serio”, Lavrov ha aggiunto coram populo che “chi si augura la sconfitta della Russia non conosce la storia”. Chi vivrà, è il caso di dire, vedrà.

Tanto noi siamo al fianco di Biden, “hasta la victoria siempre”. Perché Kiev non può perdere. O meglio Putin non può vincere. Il democratico presidente degli Stati Uniti lo ha ribadito anche prima di volare in Asia e annunciare un intervento militare Usa in difesa di Taiwan in caso di attacco cinese all’isola.

Tanto siamo così esausti, e rimbambiti, che neppure ci chiediamo più se andrà tutto bene. Il diavolo è ormai superfluo. Come nel romanzo “Il cavaliere e la morte”, testamento letterario di Leonardo Sciascia, scritto nel 1988 un anno prima di morire, il diavolo è “talmente stanco da lasciare tutto agli uomini, che sanno fare meglio di lui”.