Se alla sua presidenza non fosse stata eletta una parlamentare con discutibili frequentazioni, della ricomposizione della Commissione antimafia non si sarebbe parlato, o la notizia sarebbe stata liquidata in poche righe, come un evento di scarso interesse.

Del resto pochissimo rilievo ha avuto la sua mancata composizione, nei lunghi mesi trascorsi dall’insediamento delle nuove Camere. C’è voluta una scelta inopportuna, a conferma, peraltro, della volontà del governo di procedere con il criterio dell’“abbiamo vinto e pertanto comandiamo” e di andare avanti senza prestare alcuna attenzione alle numerose proteste e non mettendo minimamente in conto l’intesa con le opposizioni. Le quali, peraltro, in spregio di ogni logica, non hanno partecipato alla votazione, uscendo anche dall’aula, per poi rientrarvi per ottenere due vicepresidenze.

La vicenda ratifica l’irrilevanza di un organismo che continua a vivere come per inerzia, ormai da molto tempo avendo perduto quasi del tutto funzione e peso e quando sono venute meno le attese e le speranze che l’avevano accompagnato dal suo sorgere, nel lontano dicembre del 1962 e che comunque, nel tempo, si sono sempre più affievolite.

Non significando questo che non sia necessario continuare ad indagare sulla mafia e sull’eversione con l’autorevolezza e i poteri di una istituzione parlamentare. Tuttavia è come se le forze politiche non lo ritenessero più di qualche utilità. Quelle forze che, nella passata legislatura, avevano eletto a capo della Commissione un grillino di nessuna esperienza e che ha pasticciato molto nel corso della sua gestione, mentre la maggioranza attuale ha imposto una figura del tutto secondaria, al di là dei suoi controversi rapporti.

Quando ancora si faceva affidamento sul suo ruolo, la scelta veniva concordata tra maggioranza e opposizione e cadeva su personalità dotate di esperienza ed autorevolezza. Dal 1983, poi, a rimarcare l’esigenza di condivisione nel lavoro e di autonomia nella funzione, la presidenza veniva riservata ad un esponente della opposizione.

Il mondo cambia. Ed evitando rimpianti per un tempo ideale mai esistito e che tuttavia talune regole essenziali del confronto democratico seguiva, qualche pudore manteneva nell’evitare forzature pesanti, questo tempo è stato segnato dalla banalità del populismo e dall’arroganza del sovranismo, che non lascia nulla fuori dalla sua irrefrenabile, proterva voglia di potere.

Neppure la Commissione antimafia che, ancor più dopo queste vicende, continuerà ad esistere nell’indifferenza della politica e ancor più del Paese. Alla Commissione, più di sessant’anni fa, la Sicilia affidò, con molte speranze e altrettante illusioni, il compito di liberarla dalla sopraffazione mafiosa. Alla Sicilia, infatti, al suo Parlamento, al governo del tempo, ai partiti, si intesta la sua nascita. E chi scrive di quest’evento esaltante della storia isolana può rivendicare una piccola parte. All’ordine del giorno dell’Assemblea, giusto nel 1962, vi erano due mozioni del Partito comunista e di quello socialista per la costituzione di una Commissione regionale d’inchiesta sulla mafia e, per la prima volta, dopo ripetuti dinieghi ad altre analoghe richieste, la Democrazia cristiana dichiarò di accettare la proposta. Su questo terreno, su quello della lotta alla mafia e della denuncia di suoi rapporti con settori della vita pubblica, la formazione del governo, il primo di centro-sinistra con la partecipazione dei socialisti, presieduto da Giuseppe D’Angelo, era avvenuto infatti un notevole cambiamento.

Alla vigilia della discussione in Assemblea, alcuni componenti di Sicilia domani, il periodico che sosteneva la nuova alleanza, chiedemmo a D’Angelo di valutare l’opportunità che fosse il Parlamento nazionale a  costituire una Commissione, che lo Stato, con i suoi poteri, assumesse la responsabilità di contrastare la mafia, evitando di continuare a raccontarla come un fenomeno isolano del quale dovevano occuparsi quasi esclusivamente i siciliani, quando già esso, come scriveva Sciascia, risaliva e infestava la Penisola.

Convincemmo facilmente il presidente della Regione, “il democristiano che sfidò la mafia”, scrisse Giampaolo Pansa. Si convinsero le forze politiche che, con qualche riserva dei monarchici e degli esponenti del Movimento sociale, unitariamente chiesero alla Camera e al Senato di dar vita alla Commissione nazionale. Era una sfida allo Stato perché, disse D’Angelo, “studi e denunci tutte le possibili collusioni, le possibili, reali presenze della mafia nelle attività economiche, nelle strutture sociali e politiche, in tutte le più svariate forme di vita organizzativa”. “Per noi cattolici”, aggiunse, “il problema, oltre ad un valore politico, sociale e morale, ha anche un valore altamente religioso, che non solo non ci consente di restare estranei, ma ci spinge ad essere protagonisti in un’azione di profonda, radicale revisione di strutture chiaramente soffocatrici di ogni libertà”.

La speranza di un’azione efficace della Commissione, di una reale concordia delle forze politiche, non durò a lungo. I comunisti, insieme ad una severa, talora circostanziata denuncia, immaginarono di utilizzare l’Istituzione come strumento di lotta politica per mettere sotto accusa l’intera Democrazia cristiana. Di converso, il partito di maggioranza fece quadrato intorno a tutti i propri esponenti, anche a quelli che non avrebbero dovuto essere difesi.

Già nel 1964 Ferruccio Parri, uomo di sinistra ed ex presidente del Consiglio, si dimise con una motivazione che era anche una precisa accusa. “L’inchiesta che aveva messo in luce la condotta scandalosa dell’amministrazione comunale palermitana era adoperata dai comunisti per combattere la Dc. Così i primi hanno pigiato sull’acceleratore e i democristiani sul freno, con il risultato di immobilizzare la Commissione”. Dalla Sicilia, peraltro, non venne un’apprezzabile collaborazione con l’attività di quello strumento parlamentare, generalmente prevalendo sottovalutazioni e addirittura negazione dell’esistenza del fenomeno criminale.

La delusione di noi giovani redattori di Sicilia domani fu profonda e venne ripetutamente manifestata attraverso i nostri articoli. Per averne firmati molti, con i quali denunciavo il venir meno dell’impegno nell’individuare i collegamenti tra la mafia e settori della politica del mio stesso partito, nell’ottobre del 1970 fui interrogato dall’organismo parlamentare. “Con l’eccezione del democristiano Calogero Pumilia – scrisse il magistrato Rosario Minna nella sua breve Storia della mafia, pubblicata nel 1984 da Editori riuniti – la dirigenza isolana non passò all’antimafia né un nome né una ragione della stessa”.

Malgrado tutti i compromessi, le strumentalizzazioni, le timidezze, per molti anni la Commissione svolse un ruolo rilevante, produsse documenti di notevole spessore, individuò numerosi legami tra la criminalità organizzata e settori della politica e dell’economia, diede un contributo all’azione della magistratura – nel caso di Andreotti anticipò alla Procura di Palermo le motivazioni per la sua incriminazione –, interferì quasi sempre in modo positivo nei processi politici, rappresentò un faro sempre puntato sulla mafia. Dell’imponente lavoro svolto, del resto, si può venire a conoscenza attraverso Internet.

Dotati di una storia importante furono i suoi presidenti e, tra i componenti siciliani, vi sono stati Girolamo Li Causi, Pio La Torre, Giuseppe Alessi, Vincenzo Gatto, Angelo Nicosia e, nel tempo, a presiederla sono stati, tra gli altri, i comunisti Gerardo Chiaromonte e Luciano Violante e la democristiana Rosi Bindi. Restava ancora lontano il momento della nomina di una parlamentare appena eletta che, nel suo curriculum, può vantare una forte amicizia con la presidente del Consiglio, insieme a qualche volontario o involontario rapporto con personaggi dell’eversione nera e a un evidente trasporto per Codrenau, il fondatore delle “Guardie di ferro” rumene, filonazista e antisemita, davanti al cui ritratto la neopresidente dell’antimafia si è fatta intervistare durante la campagna elettorale.