Forse il vincitore più significativo di queste elezioni Amministrative non abita a Palermo, ma a Messina. E’ uno stakanovista della politica e, cosa non indifferente, dell’amministrazione. Cateno De Luca, dopo aver vinto in rimonta nel 2017 (i sondaggi lo davano quarto) ed essersi dimesso da sindaco (nel febbraio scorso) per inseguire la presidenza della Regione siciliana, ha portato al successo Federico Basile. Un garbato burocrate del Comune, promosso a candidato nell’arco di una notte e incoronato, tre mesi dopo, sulla poltrona più ambita di palazzo Zanca. Quello di Messina è stato un referendum sulla coppia De Luca-Basile, dato che le liste pagano un ritardo di 6-7 punti rispetto al sindaco, che rischia di disperdere il premio di maggioranza.

Cateno ha condotto una campagna aggressiva, contro tutto e contro tutto. Ha risparmiato solo la Lega dopo che Nino Germanà, raccogliendo l’invito di Salvini, ha deciso di schierare al suo fianco il logo di Prima l’Italia. Risultando decisivo, fra l’altro, per evitare il ballottaggio. Quello che Maurizio Croce definisce un “voto di pancia”, in realtà si traduce nell’incoronamento da parte dei messinesi per De Luca. Una sconfitta nella sua città avrebbe pregiudicato la corsa per palazzo d’Orleans. Che adesso, invece, riprende quota.

L’eco dell’affermazione di Scateno giunge fino a Palermo. Musumeci, che aveva lavorato al fianco di Croce perché “questa è una città che ha bisogno di un sindaco che parli meno e lavori di più”, sente il fiato sul collo. Ed è lo stesso Micciché, ebbro per il risultato della sua Forza Italia, a rilanciare l’ipotesi di un dialogo con De Luca. A proposito di Forza Italia: a Palermo può esultare. Non sarà primo partito, forse (il Pd, con lo scrutinio in corso, ha operato il sorpasso); ma resta alla guida di una coalizione che presentava la corazzata Fratelli d’Italia-Diventerà Bellissima. Meloni e Musumeci insieme. E’ un segnale importante in vista delle prossime Regionali: Giorgia sperava di far saltare il banco a Palermo per pretendere, numeri alla mano, la conferma del Nello-bis. Bisognerà ragionarci un attimo. Gli azzurri eleggono sette consiglieri a palazzo delle Lapidi, FdI sei. In virtù di questi risultati, Cascio aspira alla vicesindacatura.

Ma altri vincitori di giornata sono senz’altro Carlo Calenda e Totò Cuffaro. Che reciprocamente non si sopportano, ma hanno avuto il merito di portare alla competizione “qualcosa di nuovo”. Il risultato di Calenda è “gonfiato” ovviamente dalla prestazione super di Fabrizio Ferrandelli, che raccoglie il 14%, sei punti in più rispetto alla lista di Azione e +Europa (che a Palermo elegge 4 consiglieri). Ma anche a L’Aquila, Parma e Catanzaro il partito dell’ex ministro, eletto a Strasburgo in quota Pd, veleggia in doppia cifra. “Queste elezioni dicono che c’è un’area, separata dagli altri due blocchi, che se ottenesse un risultato simile a livello nazionale sarebbe determinante per qualsiasi governo. Da soli facciamo almeno il 10%”, gongola Calenda. Meno vanitoso Totò Cuffaro, che alla vigilia aveva annunciato di ritirarsi dalla politica se non avesse raggiunto il 5%. Ce l’ha fatta eccome. La DC Nuova è al 5,5% abbondante ed elegge tre consiglieri comunali. Bene anche Davide Faraone, che ha dovuto rinunciare al simbolo di Italia Viva, ma ha fatto eleggere l’80% dei suoi candidati in prestito alla lista ‘Lavoriamo per Palermo’ con Lagalla. Sono quattro per il momento.

Tre saranno invece i consiglieri di Prima l’Italia a Palermo: Sabrina Figuccia, Marianna Caronia e Alessandro Anello. Una delusione figlia del 5%. Parliamo di un tracollo numerico rispetto al 2019, quando la Lega in Sicilia superò il 20. Ma questo dato fa parte di un trend nazionale che vede Salvini in difficoltà ovunque, anche nel Nord (dove subisce il sorpasso della Meloni). L’unica consolazione di queste Amministrative è aver contribuito all’elezione di Basile al primo turno a Messina. Non troppo diverso dal Carroccio è il risultato del Movimento 5 Stelle, anche se il 6,5% di Palermo e il 4,2 di Messina gridano vendetta. Nonostante le visite di Giuseppe Conte, la strenua difesa del Reddito di cittadinanza, e i discorsetti sul salario minimo, i grillini non sfondano. Anzi, sono sull’orlo del precipizio. Prossimi a sparire. A Palermo pagano il disimpegno di alcuni big, che al netto della passeggiata con l’avvocato del Popolo nei quartieri popolari, hanno preferito altre attività alla campagna elettorale. Del M5s siederanno in Consiglio soltanto in tre.

L’altro grande sconfitto di questa competizione è Giusto Catania, avamposto dell’orlandismo, comunista doc. La lista Sinistra Civica Ecologista non si avvicina al 5% e resta fuori da tutto. Non è bastato a Catania aver cavalcato l’onda dell’indignazione per la presenza di Cuffaro e Dell’Utri. La gente ne ha le scatole piene dei tram, del suo piano per la mobilità. E a tratti anche della sua arroganza. Palermo ha bocciato anche Francesca Donato, simbolo dei No Vax, alla quale non è bastato il sostegno ‘spurio’ di Marco Rizzo, storico leader dei Comunisti italiani, e Antonio Ingroia, che in politica non ne ha mai beccata una. Le è arrivata davanti persino l’ex direttrice del carcere Ucciardone.

Di certo, non ha vinto il Pd. Un partito pieno di contraddizioni, che per blindare il patto coi Cinque Stelle, ha perso per strada una possibile intesa con Ferrandelli. Un partito che non ha saputo scegliere il candidato (non solo a Palermo, ma anche a Messina dove De Domenico si piazza mestamente al terzo posto), né calibrare i pesi e contrappesi di un’alleanza che rischia di far naufragare anche l’esperienza delle Regionali (se non arriverà un’apertura alle altre forze progressiste in vista delle primarie). Il Pd ha il merito e la colpa di guidare i processi. Se non quagliano schemi nuovi, la responsabilità è soprattutto sua.