C’è un Don Rodrigo in questo infelice teatrino della politica nostrana. Indispettito per non avere conquistato un posto di rilievo nella nuova Forza Italia di Antonio Tajani, questo baldo e ribaldo signorotto di Sicilia ha deciso di organizzare una spedizione punitiva nei confronti di Gianluca Inzerillo, capogruppo degli azzurri al comune di Palermo, colpevole di essere entrato nel consiglio nazionale del partito mentre il boss è rimasto fuori da tutto.

Il povero Inzerillo, prima che scattasse l’esecuzione, ha detto e ridetto che a quella carica nazionale era stato chiamato direttamente da Tajani su segnalazione del vice presidente della Camera, Giorgio Mulè. E ha precisato pure che un eventuale rifiuto poteva essere interpretato, dal nuovo segretario, come uno sgarbo. Ma i “bravi”, mandati a Palazzo delle Aquile per dargli la fatale lezione, non hanno sentito ragioni. Tra i consiglieri più determinati a sfiduciarlo e ad assegnare le stellette di capogruppo a Ottavio Zacco, un fedelissimo del clan, c’era, manco a dirlo, il consigliere Salvo Alotta, appena nominato, dal governatore Renato Schifani, consulente della presidenza con un compenso di mille e quattrocento euro al mese. Mentre il consenso alla bastonatura è stato dato – e non poteva essere diversamente – dal coordinatore regionale del partito, Marcello Caruso. Il quale – a differenza di chi si riteneva già un viceré di Sicilia forte e imbattibile – un posto tra i sessanta membri della larghissima segreteria nazionale l’ha conquistato; ma con una spada di Damocle che gli pende sulla testa.

Lo statuto di Forza Italia, quello scritto dal fondatore Silvio Berlusconi, stabilisce che per accedere a una importante carica di partito è necessario avere alle spalle una militanza di almeno due anni. Bene. Caruso fino alle elezioni comunali del giugno 2022 era con Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, dal quale tra l’altro non ha mai rassegnato le dimissioni. Ha cambiato casacca a settembre quando Schifani, appena eletto a Palazzo d’Orleans, lo ha chiamato a suo fianco prima come segretario particolare e poi come testa di ponte per far fuori Gianfranco Micciche e impadronirsi del partito.

I due anni non sono passati, evidentemente. Tajani ha fatto finta di niente, ma ora che Caruso ha dato copertura alla defenestrazione di Inzerillo – chiamato, ricordiamolo, nel consiglio nazionale proprio da Tajani – è molto difficile che il segretario incassi lo sfregio senza proferire parola. Diciamolo in francese: à la guerre comme à la guerre.

Ciò che Don Rodrigo si ostina a non capire – o fa finta di non capire – è che la sua emarginazione al congresso di Roma non è stata un’operazione riconducibile a Gianluca Inzerillo, un pesce piccolo della fauna forzitaliota di Sicilia. La manovra è stata costruita sottobanco, tanto per restare nella metafora manzoniana, dall’Innominato. Da un pesce grosso. Il più grosso tra quelli che guizzano in questo fangoso mare siciliano. Il suddetto Innominato avrebbe potuto chiedere a Caruso, il suo ventriloquo, di entrare nella segreteria nazionale come membro di diritto (spetta a tutti i coordinatori regionali) e di liberare nel “listino” di Tajani il posto che poteva essere assegnato al pretenzioso Don Rodrigo. Ma si è quel che si è. E l’Innominato è un politico dalle cinque rime: rancoroso, livoroso, sospettoso, permaloso e soprattutto geloso. Anzi, gelosissimo: teme che chiunque abbia i voti prima o poi proverà a farlo fuori. Don Rodrigo i voti ce li ha, eccome. E così l’Innominato, essendo cresciuto e vissuto tra i giochi di palazzo, ha adottato come sempre il doppio registro: a Roma non gli ha fatto toccare palla; mentre ora, a Palermo, gli mostra solidarietà e lo aiuta, tramite Caruso, a crocifiggere l’innoquo Inzerillo. E’ il suo vecchio trucco. Quello delle tre carte.