Dopo il summit di Palazzo Chigi fra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il capo politico del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, a difendere il Reddito di cittadinanza è rimasto l’ex premier: “Il M5s sta lavorando per migliorare il Reddito di cittadinanza e un suo più efficace collegamento con le politiche attive per trovare lavoro. Ma giù le mani da uno strumento che – dati alla mano – ha inciso positivamente sui livelli di povertà, sulle disuguaglianze. Non consentiremo a nessuno di togliere gli ombrelli di protezione ai più deboli in mezzo a un diluvio”.

La riforma in questione è una di quelle che Conte ha chiesto di non sconfessare. Con una pandemia in corso, e milioni di famiglie sul lastrico, Draghi si guarderebbe bene dal metterlo in discussione (almeno pubblicamente). E’ un presidente risoluto, non tonto. D’altronde anche il suo Ministro del Lavoro, Andrea Orlando, di recente è intervenuto a gamba tesa sui detrattori della misura: il Reddito “può essere riformato, questo sì, soprattutto nella parte delle politiche attive, ma non dimentichiamoci – ha avvertito il ministro – che ha salvato milioni di persone dalla povertà, soprattutto durante la pandemia. La demonizzazione dello strumento, sta diventando la demonizzazione delle persone che hanno quel bisogno e l’idea di fondo che sta passando è che se un povero è colpa sua perché non ha voglia di lavorare. Non è la pigrizia, ma sono le disuguaglianze che producono la povertà”.

Il Reddito di cittadinanza rimane in vita. Marchiato da una difficoltà tangibile nel separare le sue funzioni. Incapace di esprimere un fil rouge tra la fase 1 (la lotta alla povertà) e la fase 2 (la lotta alla disoccupazione). Inefficace, del tutto inadeguato, come strumento di politiche attive del lavoro (anzi, nel caso dei lavoratori stagionali del turismo, sembra ostruirle), cioè quel processo – pensato, e mai applicato dagli ultimi tre governi – che avrebbe permesso di trasformarlo in una leva di sviluppo. Così com’è stato concepito, e al netto delle situazioni limite rimarcate in questi giorni anche dalla Caritas, il Reddito di cittadinanza resta una misura avulsa dal concetto di futuro. Estranea ai numerosi tentativi da mettere in atto col Pnrr per far ripartire il Paese. E’ errata la filosofia e la sua applicazione. L’unico a proporre qualcosa, seppure in sordina, è stato Matteo Renzi: una raccolta firma per arrivare a un referendum abrogativo della misura. Le mozioni proposte da Fratelli d’Italia, con l’attuale situazione parlamentare, paiono di difficile applicazione. E per di più non sono vincolanti.

Che fare allora? La soluzione più praticabile e meno invadente è prendere tempo. E, nel frattempo, darla vinta ai furbetti (che si alimentano col lavoro nero). Ai ‘divanisti’, che ricevono l’assegno e non muovono un dito. E a qualche picciotto di mafia, che usa la card gialla per ‘schermare’ la propria occupazione prevalente. Il sussidio non produce lavoro, ma solo guai. Al 31 gennaio 2021, secondo l’ultimo rapporto della Caritas, i nuclei beneficiari di Reddito di cittadinanza indirizzati ai percorsi di inclusione lavorativa sono, a livello nazionale, circa 530 mila, il 49% del totale dei nuclei indirizzati, a seconda delle loro caratteristiche, ai Centri per l’impiego o ai servizi sociali. I dati mostrano che al 31 gennaio 2021 il 5,1% dei percettori della misura non risultava tenuto agli obblighi, il 48,3% era stato indirizzato ai percorsi di inclusione sociale e il 46,6% ai percorsi di attivazione lavorativa con i Centri per l’impiego. Si tratta di un processo lento e complesso.

Sarebbe sensato proporre qualche aggiustamento in corsa. Ad esempio, rendere effettivo il limite massimo delle tre offerte di lavoro (pena la decadenza dal beneficio). O rivalutare la funzione dei Puc, i piani di utilità collettiva. Sono stati proprio i Cinque Stelle siciliani – che difendono la misura a spada tratta – a rovesciare la pentola degli imbrogli: “Solo il 38% dei comuni siciliani li ha attivati. E’ inaccettabile – recita una nota dell’ex capogruppo grillino, Giorgio Pasqua – Vuol dire che ci sono tantissimi Comuni che non stanno sfruttando questa occasione. Cioè la possibilità di avere 40/5060 persone a disposizione per la cura del verde pubblico, pulizia strade, vigilanza, e ogni tipo di attività socialmente utile. Questa cosa è semplicemente scandalosa”. Ha ragione Pasqua. A Palermo solo 28 comuni hanno attivato i Puc (su 82 complessivi), a Messina 60 su 108, a Catania 26 su 58. Nelle piccole province la situazione è drammatica: a Ragusa nessun Comune è partito coi progetti di pubblica utilità (manco fosse la Svizzera), a Enna appena 2 su 18, ad Agrigento 11 su 43. Buio pesto.

A questa, si aggiungono altre questioni. Ad esempio il fatto che due terzi della platea che percepisce il beneficio (sono 3,7 milioni di persone) non siano rioccupabili. Lo ha detto il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, vero ispiratore del Rdc. Si parla di minori, disabili, persone con difficoltà fisica o psichica. Gente che non è presente “negli archivi Inps degli estratti conto contributivi negli anni 2018 e 2019”. Il 10% non ha nemmeno la quinta elementare, quindi è del tutto indigesta al mondo del lavoro. Non c’entra nulla la povertà. A tal proposito risulta segnante l’ultimo report della Caritas, secondo cui “più della metà delle persone in condizione di povertà – il 56% – non usufruisce del Reddito di cittadinanza. Lo percepiscono invece il 44% dei nuclei poveri, soprattutto inoccupati, persone senza un lavoro e che non percepiscono sussidi di disoccupazione o altre forme di sostegno al reddito”. Restano fuori anche i nuovi poveri, cioè le giovani coppie sorprese dalla pandemia, magari con un figlio a carico, che stanno riscontrando criticità nei percorsi di inclusione lavorativa. “Una misura come quella del Reddito di cittadinanza va assolutamente tenuta e però va anche riordinata”, afferma don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana: “Siamo qui per ribadire con forza che ci sono migliaia di persone nel nostro Paese che non possono fare a meno di un sostegno economico, che non possono lavorare o che, pur lavorando, restano inchiodati a situazioni di profondo disagio economico”.

Ma c’è un altro elemento, di carattere territoriale, portato a galla da un’inchiesta di Dario Di Vico sul Corriere della Sera. “L’assegno erogato – si legge – è uguale su tutto il territorio nazionale ma è sin troppo facile sottolineare che i differenziali di costo della vita ne rendono asimmetrica l’efficacia. Non è un caso che tutte le rilevazioni dell’Istat nella stagione del Reddito abbiano dimostrato con la forza dei numeri come l’area della povertà assoluta si sia allargata soprattutto al Nord e in particolare nelle grandi città e nei comuni limitrofi. Un assegno medio di 552 euro — secondo i dati Inps — a Milano copre molto poco”. “La seconda contraddizione – invece – riguarda l’equilibrio tra beneficiari single (attorno ai 9.600 euro annuali) e famiglie numerose (tra i 10.800 e gli 11.800 euro annuali). Una contraddizione – viene chiarito – che però è stata affrontata indirettamente dall’istituzione da parte del governo Draghi dell’assegno unico familiare che aggiungendo circa 2.400 euro per ogni figlio ha sensibilmente modificato la situazione”.

Argomenti che si aggiungono a quelli affrontati nelle scorse puntate. Una, in particolare, riguarda l’inconsistenza della sovrastruttura che dovrebbe garantire l’avviamento al lavoro delle persone intercettate dai Centri per l’Impiego. Cioè i Centri per l’Impiego stessi che, al di là della figura simbolica dei navigator (i primi precari della lista) non sono in grado di supportare l’intera misura nella maniera dovuta. Sono pochi i Patti per il lavoro sottoscritti, ancor meno i beneficiari avviati alla professione. E’ un’operazione immane anche per chi dovrebbe promuoverla: in Italia gli addetti dei Cpi sono 7.934, contro 115 mila in Germania, 49 mila in Francia e 77 mila nel Regno Unito. Sono necessarie assunzioni, ha detto Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), ma anche “una forte interlocuzione con il sistema produttivo locale” sulla quale “basare l’attività di orientamento e una interazione con il sistema dell’istruzione e della formazione professionale”. A scavare si trovano tante anomalie che renderebbero urgente (almeno) un processo di revisione. Ma c’è la pandemia, tutto il resto può aspettare.

Conte: il Reddito di cittadinanza non si tocca