Dentro Forza Italia sembra prevalere il disturbo della personalità multipla: ci sono deputati e assessori che prima offrono a Micciché di ricandidarsi, e poco dopo firmano una nota per ridimensionarlo (“Pare avessero concordato altro” fanno sapere dall’ala ribelle). Ma anche Musumeci hai i suoi bei problemi. Il principale è la solitudine. Persino dentro Fratelli d’Italia – non è un mistero – in molti si oppongono al bis e alla federazione (nelle urne) con Diventerà Bellissima. Ma la volata ormai è lanciata: “Il centrodestra ha due candidati”, ha spiegato Micciché gonfiandosi il petto per il ‘via libera’ di Berlusconi. Siamo all’Ok Corral. Chi vincerà?

L’ultima offensiva del presidente dell’Ars – messa a punto nel corso di un summit allargato, via Skype, ai deputati nazionali di Forza Italia – è un guanto di sfida al “nemico”. Sancisce la rottura del ‘centrodestra unito’. Certifica il fallimento dell’azione di governo di cui Forza Italia è stata protagonista a metà, avendo dovuto “cedere” due assessori al natio PdM (partito di Musumeci). Micciché non è affatto convinto di poter reggere i ritmi di candidato alla presidenza, tanto meno di presidente in carica: “Non ho più il fisico”, ha rivelato poche settimane fa. Probabilmente, lo crede ancora. Ma un segnale, forte, era necessario per destare il centrodestra e sottrarlo alla ragnatela di Nello. Andare troppo per le lunghe avrebbe significato che, fra due o tre mesi, la coalizione si sarebbe ritrovata senza un’alternativa spendibile. Così Micciché ha scelto di sacrificarsi, pur consapevole delle sue debolezze.

Partiamo da quelle. La prima riguarda il partito. Forza Italia, che vanta il gruppo di maggioranza relativa all’Ars (con 14 deputati), non è più la roccia granitica di un tempo e i comunicati delle ultime ore lo dimostrano. L’ultimo a ondeggiare fra il generale e i colonnelli minori, è l’assessore alle Autonomie locali, Marco Zambuto. Che dopo essere approdato alla Regione grazie a Miccichè, ha deciso scientemente di aggrapparsi ai ribelli. Il suo nome compare nella corposa lista (ne fanno parte sei deputati e tre assessori) di chi ritiene che “qualunque candidatura espressa da FI sia legittima, ancor di più quella di Gianfranco Micciché”, ma che pur tuttavia ribadiscono di attenersi “alle indicazioni più volte espresse in questi giorni dal Presidente Berlusconi e dal coordinatore nazionale Tajani che, a più riprese, hanno sottolineato la necessità di un centrodestra coeso”.

Con Micciché in campo, il centrodestra non è più coeso. E nemmeno Forza Italia. Tra i frondisti si nascondono altri “insospettabili”: a partire dal presidente della commissione Bilancio, Riccardo Savona, cui non sono bastati gli elogi pubblici per rimanere fedele a Miccichè; passando per l’on. Riccardo Gallo, tra i fedelissimi di Marcello Dell’Utri. Cioè colui che s’inventò Micciché in politica. Altri tempi. Sub-judice la posizione di Margherita La Rocca Ruvolo, presidente della commissione Salute, che fino a qualche giorno fa sparava a zero contro Razza, uno degli obiettivi principali (anche) del suo leader. I ribelli più accaniti restano, tuttavia, Marco Falcone e Gaetano Armao. Almeno loro coerenti con la storia degli ultimi anni. I problemi più evidenti, per Micciché, potrebbero nascere a Roma. Che il commissario azzurro non abbia grandi rapporti coi vari Tajani, Schifani e Ronzulli è storia nota. Che Berlusconi non decida più da solo, lo è altrettanto. L’assenza di una sponda romana – la rappresentanza siciliana, in questi anni, si è sgretolata anche a Montecitorio – rischia di diventare un handicap.

Ma la partita, secondo Miccichè, si gioca in Sicilia. Ed è in Sicilia che il presidente dell’Ars, più di Musumeci, riuscirebbe ad aggregare. La sparata di ieri è stata accolta come un “elemento di chiarezza” dal gruppo autonomista di Raffaele Lombardo: l’ex governatore, fra Gianfranco e Nello, non avrebbe alcun dubbio. Ma anche la Lega, misurata e morbida come impone lo stile di Minardo, saprebbe da che parte stare. Micciché, che negli ultimi tempi è riuscito ad arruolare pure gli ex Sicilia Futura D’Agostino e Tamajo, ha buoni amici anche nel Pd: da Cracolici al segretario Barbagallo. E il fatto che l’ampliamento del ‘campo largo’ proposto da quest’ultimo si spinga fino a Forza Italia, è un segnale della forza centripeta di Micciché. Il quale potrebbe imbarcare persino l’Udc se – come pare – confermerà il sostegno alla candidatura di Roberto Lagalla a Palermo. Quella delle Amministrative, che corre su piani paralleli rispetto alla Regione, è una partita da non sottovalutare. Una sfida in cui il catanese Musumeci, che punta spudoratamente a palazzo d’Orleans, potrà giocare solo a motori spenti. E per di più a supporto di una candidata – Carolina Varchi – su cui il pressing da Roma sta diventando asfissiante (la candidatura è stata rilanciata dal responsabile organizzativo di FdI, Giovanni Donzelli, ad Agorà).

Ma l’orgoglio ferito del governatore in carica non va sottovalutato. Preso atto delle difficoltà a farsi nuovi amici, Musumeci si rifugia nei vecchi. A partire da quelli di Attiva Sicilia, che ai tempi l’assessore Ruggero Razza ha strappato al Movimento 5 Stelle. Prima un’intesa, poi un intergruppo, adesso la fusione (quasi automatica). Ma quanto valgono nelle urne? Il presidente, poi, è stato abile nel ricucire i rapporti con la Meloni. Non che Giorgia fosse particolarmente convinta, ma l’idea di sotterrare la leadership di Salvini anche in Sicilia costituisce una motivazione più che valida. L’idea di blindare la terza regione d’Italia con uomo di Fratelli d’Italia, o comunque contiguo al partito, è un’occasione ghiotta che non ricapita spesso. Qualche buon ufficio, e un lavoro ai fianchi da perderci il sonno, ha portato alla nota con cui Meloni l’ha congedato all’esito del Quirinale: la ricandidatura di Nello è “naturale”. Anche se ogni decisione va maneggiata con cura. Sul piatto, infatti, resta il Lazio, dove si vota nel 2023 e Giorgia punta al bersaglio grosso. Non può avere tutto.

Più che contare sul sostegno dei partiti – di cui è sguarnito – Musumeci è costretto ad aggrapparsi alla lealtà dei suoi assessori. Quasi tutti per la verità. Tolti Samonà, Scavone e Scilla. Ma il PdM non è quotato nei sondaggi ed è anche un’entità astratta che avrà un peso relativo per le decisioni future. Insomma, è un non-partito i cui esponenti, alla prova dei fatti, dovranno confrontarsi coi rispettivi leader: regionali e nazionali. Persino all’interno di Fratelli d’Italia, non tutti sono d’accordo con la svolta “governista”. Raffaele Stancanelli non ha spiccicato una parola dopo l’endorsement di FdI per l’ex amico Nello (dal 2019 non si salutano nemmeno). E anche la base tradisce una qual certa sofferenza per l’idea di ritrovarsi Razza & Co. all’interno delle proprie liste alle Regionali o alle Politiche. A Musumeci in sostanza mancherebbe la “ciccia”: i voti dei partiti per farlo eleggere. D’altronde li ha convocati tre volte in tutto, escludendoli dall’azione di governo e tramando alle loro spalle (come per l’ultimo annuncio sull’azzeramento, poi rientrato): non potrà aspettarsi chissà cosa.

Ma è pur sempre chiaro che un uscente – dopo cinque anni al fronte – lascia dietro di sé uno zoccolo duro di clientele e di sostenitori: a partire dagli esponenti del sottogoverno. Una miriade di personaggi in cerca d’autore, che hanno vissuto questa legislatura come uno sbarco sulla luna. Ma ci sono anche dirigenti ed ex dirigenti pronti a immolarsi per la causa, a partecipare a convention e comizi, a confluire nelle liste se necessario. La sfida con Micciché, semmai dovesse materializzarsi, rischia di diventare un duello epico. Ma non è escluso, per la delusione dei cinematografi, che tutto si risolva in una bolla di sapone. Che quello di Micciché si riveli una mossa studiata a tavolino per svegliare il centrodestra. Per dire che Musumeci è perdente e divisivo. Per azzerare i nomi e ripartire daccapo. Senza i contendenti più celebri, che a modo loro hanno già dato spettacolo.