Il rischio ovviamente è quello di cadere nella trappola scivolosa della retorica dell’antiretorica, ma leggendo fino in fondo su Repubblica l’intervista a Franco La Torre, figlio del segretario Pci ucciso dalla mafia 36 anni fa, valuti che in fondo è un rischio che vale la pena correre. Senza volere per forza tirare in ballo i tradimenti di certa antimafia da operetta viene da chiedersi: ha ancora senso mettere in scena lo spettacolo delle celebrazioni ventisei anni dopo? Montare il palco in via D’Amelio e in via Notarbartolo, lucidare le strade, aspettare le navi piene di bambini con le magliette della legalità, mobilitare questa macchina che più che celebrare si autocelebra col vestito della festa, specchio specchio delle mie brame, chi è il più antimafioso del reame?

L’appello (tardivo) di intellettuali, professionisti e giornalisti al silenzio appare la scelta più saggia da quando l’uomo ha inventato le celebrazioni. Il silenzio da opporre al nulla dei blabla dei comunicati stampa, alle parole roboanti ma vuote di ogni 23 maggio (e di ogni 19 luglio), alle polemiche e al pettegolezzo a mezza voce sul perché di certe assenze, agli abbracci e agli abbracci mancati, a chi è pro e chi contro, a questo eterno rimestare, il non dimenticare a favore di taccuini e telecamere.

Il silenzio contro lo show, contro il dovere di esserci (quel dovere che ha sostituito senza che ce ne accorgessimo il piacere) e a favore della libera scelta dei giornali di non “aprire” con le celebrazioni senza che qualcuno gridi alla lesa maestà o, peggio, adombri il sospetto di mafiosità, che da queste parti è più facile che beccare una multa per divieto di sosta.

Quel silenzio invocato appunto da Franco La Torre, che queste celebrazioni rifugge e che ricorda il padre, e tutti coloro che per tenere fede al proprio impegno e alla propria intransigenza sono stati ammazzati, portando avanti la vita con serietà, con l’impegno da mettere nella famiglia, nel lavoro, nelle cose di ogni giorno. Senza ostentazioni, senza microfoni, senza pietire la breve sul giornale, senza la necessità di esserci per dimostrare che quel giorno lì ce l’abbiamo dentro e dentro ce lo porteremo per sempre.

Per questo, oggi più che mai, quell’appello va colto pur nel rischio, forse altrettanto stucchevole e altrettanto sensazionalistico, della retorica dell’antiretorica. Ma pazienza. Perché è l’appello che ognuno di noi ha il dovere di fare soprattutto a se stesso, scusandosi (ognuno con se stesso) se il timore di essere tacciati per qualunquisti o conniventi ci ha consegnati al silenzio tardi, troppi tardi, forse fuori tempo massimo. Perché il dovere della presenza, vissuta come una sorta di chiamata alle armi, ci ha forse fatto perdere di vista la differenza tra la vera antimafia, quella di chi lavora e non bara con gli altri e con se stesso, e quella di coloro che oggi, 23 maggio, non potranno esserci perché fisicamente impediti, maledetti venditori di paccottiglia che neanche nei banconi dei cinesi.