Come sugli attenti si sta su tutti gli eserciti del mondo, anche nemici tra loro – con l’identico saluto, lo stesso scatto e l’identico passo – così ovunque, e con la stessa malia, gli anelli trovano le dita di donne e uomini di ogni razza e di ogni storia. E dappertutto la gioielleria è la caserma di tutti gli erotismi e i carismi.

Il potere di seduzione è irresistibile, i gioielli sono l’alimento del sacrissimo fuoco dell’autenticità. Un libro di Wendy Doniger, l’Anello della verità (edizioni Adelphi), coglie l’espediente in assoluto di desiderio e responsabilità, di alibi e riconoscimento, di estasi e consunzione panica. Traduttrice del Kamasutra, docente di storia delle religioni, esperta di miti e riti, Doninger indaga il mistero seduttivo di un ben preciso canone: diamonds are a girl’s best friend, laddove l’autenticità impone il precipitato dei gioielli. Ed è quel che si sa: i loro gioielli dimostrano che hanno “molti amanti/mariti ricchi/famosi, e ratificano in tal modo il loro fascino e la loro bellezza”.

In ogni brillio dell’oro è richiesta la genuinità della manifattura e il valore, insomma, è nell’altrove sentimentale: un diamante a forma di cuore stretto da pietre più piccole a formare due mani strette nel sempre trova alloggio nel castone d’oro.

Per ogni gioia che trova luce, un’altra scivola nell’ombra e nel mare grande del racconto, la serpe del divenire si fa rubino, topazio, opale, smeraldo, zaffiro, ambra. E sono i tanti nomi cui corrisponde la sincerità risplendente. Ecco, l’anello della verità, svela nel pegno la qualità dell’impegno.

Mia zia, la signorina Lia Erbicella – prendo a prestito un esempio familiare a me caro – impone l’imperio del suo charme degnando appena poco, e con un’occhiata peraltro distratta, il contenuto dell’astuccio offertole dal pretendente. Afferra quindi il gioiello, glielo gettai piedi e come una Parvati avvolta nel sari, la signorina Lia – mia zia – abbagliate nella sua parure, col manto a pizzo, sibila al corteggiatore “mi scorderai e ti sposerai” mentre alle amiche, con l’occhio tutto femminile che sa dispiegare l’inventario di decostruzione del potere, spiega: “Non si devono permettere”.

Il sottinteso è ovvio: non ci si abbassa a così bassa paccottiglia. Si mira a una lussuosa transazione per cementare l’unione. I diamanti – scrive Robert N. Proctor – “fecero per i gioielli ciò che McDonald’s ha fatto per il pasto serale; il diamante è diventato una sorta di Big Mac delle gemme, benché assai costoso”.

Così accade in tutte le civiltà e in qualunque epoca, presso ogni condizione sociale se Holly Golightly, in Breakfast at Tiffany’s, incantata davanti alla vetrine della gioielleria, pur scannata e senza soldi vi entra lo stesso e vi riceve l’accoglienza dovuta a una Principessa.

La favola triste, già romanzo di Truman Capote, quindi film con Audrey Hepburn e George Peppard, non ha lieto fine. Paul Variack non ha quattrini per comprarne uno, tra i tanti, un anello d’oro con diamante che celebri la notte appena trascorsa con Holly. Non può che porgere agli inappuntabili commessi del celebre negozio sulla Quinta Strada un anellino senza valore per farselo incidere, dopodiché piove, si canta Moon River, si va a recuperare il gatto di nome Gatto smarrito tra le pozzanghere e tutto torna a ninnoli, bracciali e perline: “Le donne” – spiega Doniger – “usano i gioielli per indurre gli uomini a comprare altri gioielli. È un circolo, com’è un circolo l’anello”.