“L’Antimafia si era riunita in seduta straordinaria alla prefettura di via Maqueda a Palermo. Analizzando le delibere dell’assessorato all’edilizia aveva scoperto che oltre un migliaio di licenze erano intestate a una sola persona: Calogero Mancuso.

I commissari ordinarono che fosse prelevato dai carabinieri in casa sua e lo ricevettero nel salone degli specchi in un’atmosfera tesa, da grande momento.

Cognome, nome, mestiere, gli chiese il presidente. Per il nome e cognome non ci furono problemi, ma alla voce mestiere le cose si complicarono. M’industrio eccellenza.

Ah, allora lei è un industriale? – osservò compiaciuto il presidente della Commissione, sicuro di stringere finalmente nel suo pugno la testa del serpente.

No eccellenza, m’industrio nel senso che mi di do da fare, faccio cavigghiedde, lavoretti. Mi guadagno il pane facendo lo spicciafaccende davanti all’assessorato dell’Edilizia, quello delle licenze… Eccellenza, in questo mondo c’è chi fa buchi e chi ci mette una pezza sopra. Lui rattoppava. E l’Antimafia finì lì”.

I commissari non fecero altre domande, Lilluzzo Mancuso aveva approfittato dell’incapacità di leggere, prima ancora che comprendere, una realtà da cui erano anni luce lontani. Se la Commissione parlamentare antimafia avesse fatto tesoro di quell’episodio avvenuto nella Palermo degli anni Sessanta, e annotato dal cronista in “Nostra signora della necessità”, le cose probabilmente sarebbero andate in maniera diversa, ma con i se e con i ma la storia non si fa.

Sei decenni dopo nella “cattedrale” di palazzo San Macuto, nel cuore di Roma, stanno nuovamente tirando a lucido i marmi in attesa dei nuovi porporati dell’Antimafia, rassicurati dalla certezza che il parlamento non interromperà la consuetudine. La Commissione nazionale antimafia si insedierà con tutto il suo carico di eterna emergenza e di retorica stantia di chi per esistere ha bisogno di fingersi necessario. E per riuscire nell’intento si aggrappa al passato, tenendo in vita i fantasmi di una mafia che lo Stato ha sconfitto. Sarebbe il caso di concentrarsi su una più produttiva analisi del fenomeno mafioso che si evolve, a dispetto della elefantiaca prassi da carta bollata con cui la Commissione vidima le relazioni di fine mandato che, senza offesa, andranno a prendere polvere sugli scaffali. Dai vecchi inquilini di san Macuto, che ospitava nel Seicento l’Inquisizione, i commissari hanno ereditato la vena giustizialista che ha reso la Commissione uno dei tanti, troppi tribunali paralleli dell’Italia. Si emettono sentenze, si ritirano patenti di moralità senza accorgersi che nel frattempo l’antimafia è crollata sotto il peso degli scandali e delle storture. I commissari s’industriano, se ne vanno in giro per l’Italia convocando in audizione uomini e donne. Ad ogni ricorrenza di morte e dolore divulgano (pardon, desecretano, che fa più mistero) le audizioni dei martiri di mafia come se, oltre all’incommensurabile valore storico ed etico, svelassero chissà quali verità giudiziarie nascoste. E mentre si affaticano i commissari hanno smarrito il loro compito istruttorio.

Mille riunioni, mille verbali, mille documenti affidati alla storia come contributo alla costruzione di una società migliore. Tutta fuffa, o quasi. L’ardore delle prime e lungimiranti commissioni, come quella guidata da Gerardo Chiaromonte, è diventato furore. Oggi la Commissione si presenta come un’enclave di potere e privilegi, strumento per togliersi persino qualche sassolino dalle scarpe. Si è persa l’occasione di comprendere le evoluzioni delle cosche, dalla Cosa Nostra siciliana alla ‘Ndrangheta calabrese, alla Camorra campana. Di studiare quali leggi abbiano funzionato e quali no. Nessuno ha intravisto la necessità che il codice antimafia e le misure di prevenzione venissero riviste perché, superata la logica emergenziale, stavano per distruggere tutto ciò che toccavano. Si poteva intuire in tempo che per alcuni l’antimafia stava diventando uno spot per mascherare logiche affaristiche e conservare rendite di potere.
Si doveva chiedere alla magistratura di riflettere sul modo di condurre le indagini invece di assistere allo spettacolo indecoroso di processi finiti al macero, come quelli sulla strage Borsellino. Oggi la Commissione è il luogo dei rimpianti, delle occasioni mancate, della volontà di non farsi nemici, specie se indossano una toga, di non sporcarsi le mani mettendole dove davvero andrebbero messe. Meglio mantenere il candore della parola antimafia.

Ha una buona fetta di ragione il giornalista Alessandro Barbano, che ha intitolato il suo ultimo saggio, “L’Inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. Ci si misura con un “universo che fa delle deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare su cui sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine”.

Prendete le misure di prevenzione dove si è concretizzato, dice Barbano, “un disegno di potere visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela”. Il corso della storia poteva cambiare. Davanti alla commissione antimafia, allora presieduta da Rosy Bindi, il prefetto Giuseppe Caruso denunciò ruberie e malversazioni attorno alle aziende e ai patrimoni sequestrati ai boss e agli imprenditori in odore di mafia. Era il 2014 e il prefetto, che allora guidava l’Agenzia dei beni confiscati, finì sulla graticola, accusato di “delegittimare” il lavoro dei magistrati che rischiano la vita, con “un’accusa generalizzata al sistema”. Un anno e mezzo dopo sarebbe esploso lo scandalo giudiziario che ha portato alla condanna e alla radiazione dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto. L’inchiesta e il processo hanno svelato l’esistenza di un comitato di affari. È il meccanismo che non ha funzionato perché, scrive Barbano, c’è stata una “torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto”.

Sono passati 40 anni dall’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre che introdusse le misure patrimoniali. L’obiettivo era togliere la forza economica ai clan mafiosi. Azione legittima e sacrosanta, ma quella legge era figlia dell’emergenza. Di recente si è assistito a un’inversione di tendenza sul tema dell’attualità della pericolosità sociale su cui si fonda la misura di prevenzione e sulla cosiddetta “perimetrazione della prova”. L’accusa deve dimostrare se la pericolosità caratterizza “l’intero percorso esistenziale” del proposto per una misura di prevenzione o solo una parte della sua vita. Il problema è che la lotta alla mafia ha azzerato in molti casi lo stato di diritto. Non vale più il principio di non colpevolezza, ma si parte dalla presunzione di colpevolezza. Si inverte l’onere della prova. È il cittadino a dovere dimostrare che il suo patrimonio è lecito. Le immagini dei beni che vanno in rovina sembrano rafforzare l’idea di uno Stato che bada solo a punire e distruggere in nome di quello che Barbano definisce un “progetto ideologico di matrice rivoluzionaria che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente”. Il furore giustizialista travolge “non solo gli autori dei reati ma i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia come gli imprenditori che pagano il pizzo”.

Le parole del prefetto Caruso suonarono come un’eresia per i reduci dell’antimafia. Lo stesso effetto provocarono quelle pronunciate da Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all’Università di Palermo e studioso, tra i più autorevoli, del fenomeno mafioso. Ebbe l’ardire di criticare, assieme al collega di Diritto penale Giovanni Fiandaca, la fantomatica Trattativa Stato-mafia, sulla quale i pubblici ministeri palermitani hanno imbastito un processo che si presenta picconato alla valutazione finale della Corte di Cassazione. La Commissione invitò Lupo, ma alla fine gli riservò un trattamento inospitale. “Nel suo libro ‘La mafia non ha vinto’ c’è un attacco frontale – non direi qualche sciocchezza – all’impostazione accusatoria della Dda di Palermo rispetto al processo trattativa”, disse il deputato del Pd Davide Mattiello, cresciuto nel cuore di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti divenuta una holding per gestire i beni confiscati. Mattiello fece da scudo quando Catello Maresca, procuratore della direzione distrettuale di Napoli, sollevò dubbi su certi metodi adottati da Libera.
Quanta spudoratezza aveva mostrato il professore Lupo nel sostenere tesi scismatiche rispetto al caposaldo che la Commissione sia l’alter ego politico delle Procure. Il modus operandi lo tracciò nel 1992 il presidente Luciano Violante che raccolse per primo le rivelazioni di Tommaso Buscetta sul terzo livello della mafia. Divennero l’ossatura del processo a Giulio Andreotti avviato dalla Procura di Palermo guidata da Giancarlo Caselli.

Commissione e magistratura iniziarono ad andare a braccetto. Perché la magistratura non si discute. Semmai si emula. Fosse stato per Nicola Morra, presidente grillino dell’ultima Commissione antimafia, avrebbe fatto il politico e il magistrato in contemporanea. Una volta ammise che i pubblici ministeri Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita erano “il punto di riferimento per quanto riguarda la mia azione in termini di politica giudiziaria”. Gli stessi principi di politica giudiziaria che lo indussero ad innalzare l’asticella del giustizialismo. Tra le prerogative di cui va fiera la Commissione antimafia c’è la cosiddetta lista degli “impresentabili”, ovvero dei candidati che pur essendo in possesso di tutti i diritti politici la Commissione consigliava di non votare in quanto indagati per qualche ipotesi di reato. Morra si spinse oltre. Bastava il sospetto per marchiare qualcuno. Lo fece con Sandra Lonardo, la moglie di Clemente Mastella, che da senatrice di Forza Italia era divenuta componente dell’Antimafia. Nonostante fosse stata assolta dopo nove anni di processo Morra le affibbiò l’etichetta di “sospettata”. Una persona di cui diffidare, insomma.

E mentre i commissari diffidano e sospettano l’antimafia militante è andata a sbattere. La cosa grave è che indossava la toga e se ne andava in giro super scortata con le macchine tirate a lucido nelle parate delle commemorazioni. Una certa parte della magistratura si è chiusa a riccio, illudendosi che la toga facesse da paravento, che nascondesse le storture di un metodo investigativo che parte da un postulato e vi ricama attorno le presunte prove che spesso, e non volentieri, altro non sono che i racconti dei pentiti. Quei pentiti che si guadagnano la pagnotta, raccontando storie impossibili da verificare ma che tanto somigliano ai desiderata degli inquisitori. Sono gli attori perfetti per imbastire processi ad ogni costo. Che importa se alla fine i processi, per altro costosissimi per l’enorme spiegamento di forze, non solo si perdano, ma allontanino dalla verità come è avvenuto per la strage di via D’Amelio. I magistrati avevano preso il più clamoroso degli abbagli credendo che un malacarne di borgata, Scarantino, avesse partecipato alla deliberazione dell’eccidio. Le Commissioni parlamentari, perché esiste anche quella siciliana, sono state il luogo della strenua difesa della magistratura. Non è un caso che Roberto Scarpinato, ex procuratore aggiunto di Palermo e ora parlamentare del Movimento 5 Stelle, pochi giorni fa sia stato il primo a depositare il progetto di legge per la costituzione della nuova Commissione antimafia perché “siamo difronte ai sistemi criminali o addirittura “comitati crimino-affaristici” “P3 o P4”.

Le sue linee programmatiche Scarpinato le aveva tracciate quando decise di riversare in Commissione la sua “rilettura organica, alla luce delle più recenti conoscenze, di una serie di risultanze processuali acquisite nel corso degli anni in vari processi di cui sono a conoscenza essendomi occupato da tempo di questi temi per i delitti politici mafiosi e per la revisione del processo della strage di via d’Amelio”. Ed ecco il refrain dei magistrati “bersaglio di entità superiori”, delle “entità esterne a cosa nostra”, delle “menti raffinatissime”.

Era già successo con Gianfranco Donadio, un tempo alla Procura nazionale antimafia che in audizione raccontò alla Commissione della sua un’indagine “parallela” stoppata e denunciata dai procuratori di Caltanissetta e Catania. Aveva sentito 56 collaboratori di giustizia, tra cui Nino Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Personaggio ambiguo Lo Giudice. Pentito, in fuga dalla località segreta dove viveva sotto protezione, autore di memoriali contro i magistrati Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino e contro Renato Cortese, il poliziotto che arrestò Bernardo Provenzano. Quando lo riacciuffarono disse che era stato minacciato dai servizi segreti. Si fece di nuovo pentito e aggiunse, grazie alla memoria ritrovata, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, poliziotto dei misteri, oggi deceduto.
L’Antimafia si interessa nelle sue relazioni al sistema di protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Mai che venga posta la questione se questa protezione la meritino davvero e davvero tutti i pentiti. È così i decenni sono trascorsi segnati dalle balle di Vincenzo Scarantino, dai ricordi a rate di Giovanni Brusca, dalle piroette di Massimo Ciancimino.

D’altra parte, i commissari, Lilluzzo Mancuso lo aveva capito dall’alto della sua maliziosa ignoranza, spesso non fanno le domande giuste. Facili sì, ma non giuste. Per quelle ci si dovrebbe sporcare le mani, perdendo il candore dell’antimafia.

(Un articolo scritto per Il Foglio)