Neanche il Coronavirus, i contagi, le mascherine e le scuole chiuse sono riusciti ad ammantare la vera emergenza siciliana: cioè la pervasività delle istituzioni, sempre più esposte ai traffici loschi di comitati d’affari di cui (spesso) finiscono per diventare complici. A volte senza dolo – ogni cosa va restituita alla verità dei fatti – ma cambia poco. Le istituzioni, sottoposte allo stress test di burocrazie malate e strutture amministrative fuori controllo, hanno fallito la prova del nove. E, per la serie “ecco il vostro scandalo quotidiano”, non riescono a resistere, opporsi, ribattere ai tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata: che talvolta si manifesta sotto forma di faccendieri senza scrupoli (è ancora vivido il ricordo del “sistema Arata”), altre col volto buono e compiacente di funzionari infedeli e dirigenti compromessi, disposti a tutto pur di fare soldi e alimentare fenomeni corruttivi.

In mezzo c’è la politica che non batte un colpo. E la cui unica speranza di redimersi – della complicità, e dell’omesso controllo – è affidata alle sentenze dei giudici. Che prima o poi arriveranno, quando sarà impossibile però cancellare l’onta del disgusto. Qui garantismo e giustizialismo non c’entrano. Ne va della morale. Quella di cui Musumeci, in campagna elettorale e prima di diventare presidente, s’è riempito la bocca. Eppure le vicende di questi giorni non abbracciano la politica in senso stretto. Non si limitano ai banchi dell’Ars e del governo siciliano (o cittadino, nel caso di Palermo), si annidano in profondità, ti arrivano alle viscere, si palesano col malcostume. E il malcostume ha un solo antidoto: la cultura. Laddove la cultura è difficile da esercitare o trasmettere, però, si applicano le sanzioni. Esemplari, possibilmente.

Servirebbero un bel po’ di mascherine – restando al tema di questi giorni – per contrastare il forte tanfo proveniente dai corridoi dell’assessorato alle Politiche Agricole di viale Regione siciliana. Prima le dimissioni volontarie del capo della segreteria particolare dell’assessore Edy Bandiera, l’ex deputato Franco Mineo, dopo il polverone sollevato dalle intercettazioni che confermano la sua amicizia con il boss dell’Arenella Gaetano Scotto, uno dei riscossori più in voga del pizzo, finito nuovamente in carcere; poi, gli episodi di corruzione che hanno portato all’arresto di 16 persone, tra funzionari e imprenditori, per le truffe organizzate ai danni dell’Unione Europea. Alcuni burocrati, tra cui l’ex dirigente del dipartimento (fino al 30 giugno scorso) Antonino Cosimo D’Amico, e l’attuale componente dell’ufficio di gabinetto dello stesso Bandiera, Vincenzo Geluso, avrebbero flirtato con alcuni imprenditori per garantire – in cambio di “favori” – un accesso agevolato alla mega torta dei finanziamenti comunitari. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto all’assessore di riferire in aula, perché per cambiare le cose serve una “volontà politica” che spesso nemmeno s’intravede.

Ha detto bene il comandante del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, il colonnello  Gianluca Angelini: “Siamo di fronte a condotte illecite di particolare gravità. In primo luogo perché hanno determinato un grave nocumento alle uscite dei bilanci europeo, nazionale e regionale. In secondo luogo, quelle condotte illecite hanno rappresentato un’occasione mancata di sviluppo: in un territorio come quello siciliano, l’impiego efficiente dei fondi pubblici a disposizione, che sono cospicui, potrebbe rappresentare davvero un volano per la crescita del tessuto economico-imprenditoriale. Da ultimo, e non certo per importanza, dobbiamo constatare ancora una volta la permeabilità di settori della pubblica amministrazione agli interessi della criminalità economica, che inquinando il sistema produttivo altera i principi di leale concorrenza, a discapito degli imprenditori onesti e rispettosi delle regole”. Il danno è triplice, inestimabile. Non può essere quantificato solo in base agli effetti di una sentenza.

Altri uffici, altri assessorati, nei mesi scorsi erano stati falcidiati da comportamenti borderline, ma purtroppo sempre più usuali. Il faccendiere Paolo Arata, che da qualche giorno è uscito dal carcere per rientrare ai domiciliari, faceva la spola dall’Energia al Territorio Ambiente, per portare avanti i progetti dell’eolico di Vito Nicastri, suo socio in affari e finanziatore della latitanza di Messina Denaro, ultimo boss di Cosa Nostra. Sfruttando le sue amicizie ai piani alti – Arata era stato deputato alla Camera con Forza Italia e consulente all’Energia della Lega di Salvini – si faceva annunciare e ricevere dagli assessori, spiegava la bontà delle sue iniziative, faceva pressioni via sms. E’ anche riuscito a mettere contro Pierobon e Cordaro, colleghi di governo, entrambi ascoltati dalla Procura come persone informate sui fatti. Ha messo a soqquadro un intero dipartimento e in difficoltà la commissione che avrebbe dovuto pronunciarsi sui due impianti di biometano, poi bocciati. Ha arrecato danno alla Regione, facendo passare per sprovveduto chiunque gli prestasse il fianco. Pierobon si è inca… zero quando ha scoperto che fosse socio in affari di Nicastri.

Tornando ai nostri giorni, un altro scandalo che coinvolge funzionari pubblici è venuto fuori a Messina: quattordici indagati e undici arresti per un giro di mazzette che ha coinvolto imprenditori e funzionari del Genio Civile di Messina e Trapani, compreso un dirigente della città dello Stretto. Il listino delle tangenti prevedeva duemila euro di utilità in cambio di un aiutino per vincere un appalto. Talvolta bastavano mille euro per convincere un funzionario ad aggiudicare dei lavori di manutenzione senza gara. Ma spesso si finisce nei guai per cifre inferiori: un ex assessore avrebbe intascato 400 euro per affidare dei lavori di sistemazione di un parcheggio alla ditta “amica”. Un calvario.

Ma il caso più cocente, che rischia di mandare in frantumi un’intera stagione di battaglie per la legalità, e di antimafia chiodata, è quello di Palermo. Dove per concedere l’autorizzazione a costruire 350 alloggi in tre aree dismesse del Comune, sono stati coinvolti uffici e consiglieri comunali: due di essi, che facevano parte della coalizione del sindaco Leoluca Orlando, sono finiti ai domiciliari. Ma anche la giunta è stata lambita dall’inchiesta, dato che l’ex capo dell’Area tecnica del Comune, Mario Li Castri, è stato a lungo il braccio destro dell’assessore all’Edilizia privata, Emilio Arcuri. Che dopo il caos ha preferito un passo indietro e rifiutato l’ennesimo invito di Orlando a seguirlo in giunta. Il sindaco di Palermo, da 35 anni al timone della città (con qualche pausa fisiologica), ha sottolineato l’onestà di Arcuri, mentre lo invitava a dimettersi, e respinto qualsiasi coinvolgimento. Anche se questi episodi corruttivi, che si sono consumati lontani dai suoi occhi, hanno lacerato il modello d’Amministrazione tutto d’un pezzo che è stato il vanto del “professore”.

Il fatto che Li Castri fosse uno dei “suoi” tecnici più fidati, ha convinto le opposizioni a presentare un esposto all’Anac, l’autorità nazionale anti-corruzione, e a invocare un intervento della commissione regionale antimafia, per audire il sindaco e cogliere le responsabilità di una politica troppo moscia. Orlando non è più riuscito a esercitare il filtro della Rete, e la sua legislatura si trascina stancamente verso la conclusione. Per accelerarne il processo gli verrà presentata pure una mozione di sfiducia: queste “minacce”, però, non l’hanno mai scalfito. Ciò che potrà scalfirlo, forse, è dubitare della sua capacità d’analisi nella scelta di collaboratori e dirigenti. O, ancor meglio, nella proposta politica, rimasta stantia e imprigionata nella polvere della primavera di Palermo. Ma qui sono in tanti ad essersi dimenticati del cambio stagione. Il malaffare prolifera. Il rischio è che non faccia più notizia.