Della prima Finanziaria dell’epoca Schifani restano in mente soprattutto due cose: la decisione trasversale di adeguare gli stipendi dei parlamentari all’aumento dell’inflazione (tema che, di per sé, esulava dalla Finanziaria stessa); e il metodo di lavoro, fondato sull’inciucio. Da cui nessuno, o quasi, ha scelto di prendere le distanze. E’ per questo che la manovra è andata in porto in meno di tre giorni e al termine di 19 ore di confronto, neanche troppo serrato, a Sala d’Ercole. Grazie a un paio di maxi-emendamenti presentati dal governo, su cui l’aula non si è tirata indietro. Nemmeno quando l’assessore Falcone, prendendo a pretesto l’intervento del commissario dello Stato, ha annunciato la necessità di dare un taglio agli articoli di spesa – del 10 per cento secco – per rinvenire 30 milioni a garanzia dell’accordo Stato-Regione ed evitare l’impugnativa di Palazzo Chigi. Tutti d’accordo.

A voler leggere superficialmente questa svolta bipartisan, ci sarebbe da rallegrarsi. E invece no. La manovra, al di là delle presentazioni di rito, è la classica legge omnibus con dentro tutto: a partire dalle marchette, unica merce di scambio possibile per una politica alla continua ricerca del consenso. Centomila euro a destra, ottanta mila a manca. E il gioco è fatto. Passando per il solito slancio patriottico sui precari, abbindolati con un aumento del monte orario, e sui sindaci, destinatari di una “riserva” (nemmeno completa) per l’aumento delle indennità. Gli accordi maturati in commissione Bilancio non sono stati traditi a Sala d’Ercole e neppure il voto segreto – richiederlo è divenuto quasi obbligatorio per il gioco delle parti – è bastato a mandare in tilt il governo. L’unico a dover rinunciare a qualcosa è stato l’assessore all’Energia, Roberto Di Mauro, che con l’articolo 10 avrebbe istituito un fondo da 300 mila euro per “ingaggiare” consulenti al dipartimento Acqua e Rifiuti: proposta bocciata. Secondo i grillini era una “norma capestro”.

Ma nessuno, tanto meno i 5 Stelle, è rimasto al riparo dai compromessi. L’adeguamento delle indennità dei parlamentari al costo della vita ha interessato tutti. A vari livelli e in vari momenti. Come denunciato da Cateno De Luca per parare il fuoco pentastellato, anche Nuccio Di Paola, in quanto vicepresidente dell’Ars, non s’era opposto, quando poteva, all’aumento delle spettanze. “Lui e i suoi sodali sapevano benissimo da mesi, essendo nell’ufficio di presidenza, che nel bilancio dell’Ars sarebbe finito questo aumento. Ma hanno taciuto. Lo hanno fatto con la solita premeditazione e oggi tentano di mistificare la realtà”, ha detto l’ex sindaco di Messina. Il cui comportamento, però, è al limite dell’ambiguo: la proposta di abrogare l’aumento, con un emendamento alla Finanziaria, portava in calce la sua firma. Ma al momento di votare, gli 8 deputati del suo gruppo hanno sfilato il tesserino. “Lo abbiamo fatto per stanare un accordo politico trasversale”, s’è giustificato il leader di Sud chiama Nord, tirando in ballo il voto segreto chiesto da pezzi di maggioranza e opposizione (sette deputati in tutto). “Basta con le sceneggiate”, è stata la controreplica M5s.

Ed è proprio sul voto segreto che cadono tutti i veli. Sarà pure un’istituzione parlamentare (“Esiste? Lo uso” ammette Micciché) e tutela delle scelte dei singoli, specie quelle di coscienza; ma talvolta, di fronte alle più impopolari, diventa sintomo di strategie occulte. Come in questo caso. Al parlamento siciliano non esistono maggioranza e opposizione. Ma onorevoli da accontentare e un presidente, Schifani, da blindare a tutti i costi. L’indirizzo politico “inclusivo” dato a questa manovra dall’assessore all’Economia, che era anche l’unico stratagemma per fare le cose di corsa (nonostante l’esercizio provvisorio scadesse il 28 febbraio), era stato criticato da alcuni deputati di Fratelli d’Italia nei giorni di trattativa in commissione Bilancio: “Sembra una manovra scritta dall’opposizione”, si lamentavano. Ma in aula, di franchi tiratori, nemmeno l’ombra.

Il fatto che sia proceduto insieme, senza sgarbi né imboscate, è evidente nel commiato di Schifani. “Voglio ringraziare, per il lavoro certosino e di sintesi fatto in pochissimo tempo, l’assessore all’Economia Marco Falcone, il presidente Dario Daidone e tutti i componenti della commissione Bilancio. Un apprezzamento, inoltre, voglio rivolgerlo anche al presidente dell’Ars Gaetano Galvagno per l’oculata e garantista gestione dell’Aula e a tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, che con senso di responsabilità hanno approvato una manovra nei termini temporali che ci eravamo dati”. Il manifesto della pace. Ma anche la cifra di una legislatura che il centrodestra sembrava poter disputare col favore dei numeri (40 deputati eletti e Micciché emarginato), e che si improvvisamente complicata a seguito delle ingerenze romane: dalla scelta degli assessori passando per lo scandalo di Cannes, lo stato maggiore di Fratelli d’Italia ha spinto Schifani a un passo dalla crisi politica e diplomatica. Per questo è stato necessario rinvigorire l’azione del governo con l’apporto di Pd, De Luca e 5 Stelle, sempre più litigiosi fra loro ma pronti a offrire una stampella quando necessario. In pratica, collaborazionisti a corrente alternata. E mai gratis.

Ne è testimonianza la Legge di Stabilità. Il M5s parla di una Finanziaria “senz’anima e senza visione”, ma incassa una serie di misure da appuntarsi al petto: i contributi alle produzioni cinematografiche, per l’acquisto di pannelli fotovoltaici, per la riqualificazione dei rifugi e delle aree attrezzate nei parchi e nelle riserve, per il trasporto rifiuti dalle isole minori. “Abbiamo cercato, con i nostri emendamenti, di migliorare la manovra e infatti sono molte le norme di rilievo da noi proposte e diventate leggi”, ha detto il capogruppo grillino Antonio De Luca. Il Pd, grande assente, si bea per l’istituzione di un Fondo Famiglia “con il quale potrà essere erogato un contributo regionale di 1.000 euro per le famiglie a basso reddito con almeno tre figli a carico, ed altri 200 euro per ogni figlio in più oltre il terzo”. Oltre che per il sostegno alle imprese in amministrazione controllata, e alcune misure per il territorio e la Protezione Civile: “In alcuni punti siamo riusciti a migliorare la finanziaria del governo Schifani che è scarna e senza visione”, ha detto il capogruppo Michele Catanzaro. De Luca, che alla vigilia prometteva scintille (denunciando l’atteggiamento del governo, reo di non aver allegato la tabella dei tagli al bilancio), esulta per una serie di iniziative sugli enti locali: “Abbiamo fatto un ottimo lavoro”.

Ma d’altronde in questa fase storica così falcidiata, dove davvero i siciliani soffrono per l’aumento del costo della vita (più di quanto non siano in grado di cogliere i pentiti del super stipendio) e la politica non è in grado di offrire risposte all’altezza, è bastato mettere insieme due debolezze – quelle del governo e delle opposizioni – per costruire un regime forte e inattaccabile. Che, per inciso, spera di superare ogni intemperia (ma come la mettiamo coi magistrati contabili?) grazie alla copertura di un governo amico a Roma. Insomma, l’era della pacificazione e dell’inciucio sembra solo all’inizio. Ma non è scritto da nessuna parte che la Sicilia ne uscirà migliore.