Dove sono finiti gli studenti che amavano Ho Chi Minh?

PAOLO INGLESE DIRETTORE SISTEMA MUSEALE UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PALERMO

L’Italia ha appena vinto gli Europei di calcio, Orietta Berti ha cantato la hit musicale dell’estate 2021. Gianni Morandi è secondo a Sanremo e la città è piena di manifesti che raccontano che ‘la DC è tornata’. Naturalmente, la guerra fredda è più calda che mai e l’antiamericanismo di alcuni è più vivo che mai.

Sembra di essere nel 1968, solo che, oggi, il Vietnam lo abbiamo a 2000 km da Roma, e Saigon si chiama Kyiv ed è difficile che sarà libera, o che cadrà – dipende dai punti di vista – il 30 aprile. È davvero tutto così simile? Direi di no. Innanzitutto, i giovani. In quegli anni il movimento occupava le piazze e le Università e comizi, seminari, pamphlets, e la musica, la nostra meravigliosa musica rock, era un inno contro la guerra e, in larga parte, contro l’America e i suoi presidenti. Le Università americane ed europee erano teatro di democrazia e di scontri. Neil Young cantava Ohio, con Crosby, Still e Nash, per gli Studenti uccisi dai ‘soldatini’ alla Kent State University, e a Cannes, nel 1970, Fragole e Sangue diventava il film cult di una generazione che cantava Give Peace a Chance di John Lennon.

Oggi, sono passati, è vero, solo 20 giorni e suonano le note dei pianoforti degli assediati e dei concertisti, nei luoghi di guerra, in Ucraina. Ma, dove sono i giovani europei? Di Roma, Parigi, Londra, Vienna? In Italia, ascoltiamo i feroci distinguo e il richiamo ‘alla complessità delle ragioni’ di chi non rinuncia a cercare nell’imperialismo americano la fonte di tutti i mali, ma nelle Università, c’è un silenzio glaciale o, certamente, non c’è quella grande sensazione di solidarietà che c’era per un popolo lontano e neanche è così aspra la condanna di Putin, come fu quella di Nixon e Johnson da parte, per esempio, di quella ‘intellighenzia di sinistra’ Italiana che, da sempre seduta al ‘Bar Casablanca con i blue jeans scoloriti, la barba sporcata da un po’ di gelato’, che amava Ho Chi Minh tanto quanto è critica su Zelensky, fa dello snobismo antiamericano la sua eterna bandiera, anche fuori da ogni logica e contro il minimo buon senso, se non buon gusto.

Oggi non c’è nessun ‘collettivo’, nessuna assemblea di nessuna associazione studentesca che fa sentire con forza la sua voce ai ragazzi delle Università di Kjiv, Odessa e Leopoli. Eppure oggi non c’è da mettere fiori nei cannoni dell’occidente, ma in quelli russi. Oggi non c’è da battersi, come allora, per non voler essere noi i ‘masters of the war’, non c’è da rincorrere l’infinita autocritica del mondo occidentale, ma c’è da dire con chiarezza che i cannoni contro le scuole, i bambini, le donne, le città europee sono sovietici, sono di Putin, e che gli Ucraini sono vittime di un’aggressione criminale e meritano almeno quello che per quella generazione meritavano i vietcong. Meritano la nostra musica, le nostre poesie, i nostri inni e il nostro aiuto assoluto.

Oggi non c’è da mettersi addosso la t-shirt con il Che, ma quella con il viso di donne come Anna Stepanovna Politkovskaja, assassinata da Putin nel 2006, o di Marina Ovsyannikova, che ha dato una lezione di giornalismo, di onestà intellettuale e di libertà che molti, troppi, dovrebbero imparare. Allora, era il 1972, la foto di Kim Puch, la bambina vietnamita che piange e corre, spogliata dal napalm mise da sola in ginocchio il gigante americano e lo costrinse alla resa, perché, intollerabile per l’opinione pubblica, da sola distruggeva la reputazione americana nel mondo.

Oggi, vediamo immagini altrettanto terribili, ovunque, di donne, bambini, scuole, ospedali che, certamente non fermeranno Putin, ma che devono fermare l’equilibrismo europeo. Perché, in democrazia, anche la più sgarrupata, l’opinione pubblica conta, a volte anche troppo, e i ragazzi morti alla Kent State e i bambini vietnamiti che riempivano le pagine del Time sfidavano e vincevano la forza di un esercito. Non morirono invano. Non lasciamo che succeda oggi. Facciamo ‘vivere’ i martiri ucraini. Cantiamo, suoniamo, manifestiamo, combattiamo con e per loro. Lo so, non è il 1968 e i Maneskin non sono i Doors di Unknown soldier, ma non lasciamo che la paura e la nostra sazia comodità vinca sulla speranza. A me resta da chiedermi, Cosa ha fatto la nostra generazione per rendere i nostri giovani così indifferenti. E’ una domanda alla quale non so rispondere.

Paolo Inglese :

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