Contrordine: “Non era un attacco a Draghi”, dice Giorgia Meloni nella sua replica a palazzo Madama. Per poi arrampicarsi sullo scatto incriminato come su uno specchio con le mani bagnate, perché “ho sempre apprezzato la sua fermezza sull’Ucraina, ma non si riduce a una foto”. E allora se ne deduce che altri erano i leader in posa, peccato che non se ne trovino tanti su un treno per Kiev con Olaf Scholz e Emmanuel Macron. Insomma, ci siamo capiti.

Se la politica fosse quella di una volta, fatta di parole pesate (e mai causali), di smentite artate, di retropensieri tattici, si potrebbe discettare a lungo di questa intemerata su Mario Draghi da parte di Giorgia Meloni e della sua successiva correzione. I retroscenisti sarebbero applicati a decrittare il “segnale”, il suo significato e le ragioni della retromarcia, magari come conseguenza di altri segnali arrivati nel frattempo. Altri tempi. Perché in verità è tutto più semplice: il buco, con quella voce autentica uscita dal senno sovranista e la toppa, messa in nome delle compatibilità con quel che Draghi rappresenta, più che una piroetta tattica raccontano di un evidente nervosismo (peraltro le capita spesso quando va a braccio). Si spiega anche piuttosto facilmente: sta arrivando il momento delle decisioni, e non è facile decidere come rinviare, ammesso che la vicenda del patto di stabilità si chiuda con un compromesso positivo e che spezzeremo le reni all’alleato teutonico, in cambio le nostre reni saranno gravate dal fardello del Mes e pure sull’immigrazione ci sono meno soldi (a proposito della genialata della logica “a pacchetto”). Continua su Huffington Post