Libera nos a malo, Domine. Liberaci da un male che si chiama trash, spazzatura, cattivo gusto, che si spinge e oltrepassa i confini dell’indegno, che si nutre di tutto pur di conquistare un punto in più di share in televisione, liberaci da tutti quelli che fanno del dolore altrui paccottiglia a fin di propaganda sul video. C’è di sicuro un’impunità terrena, per tutto questo, specie se alla fine «devo dare la pubblicità» e tutti i salmi, dunque, finiscono in gloria, per la precisione sul registro contabile delle aziende, ma Tu segnatele, certe scene, non invochiamo giudizi sommari di cui certo non Ti facciamo capace, ma tieni conto, sul Tuo pallottoliere, di questo abuso e di quest’altro e di quest’altro ancora.

L’ultimo in ordine di tempo l’ha perpetrato il duo di largo successo mediatico Barbara-Matteo (D’Urso-Salvini) che ci ha sprofondati nel giro di 30 secondi in un gorgo da apocalisse, come se non stessimo già vivendo giornate di sgomenta incredulità: i due, l’altra sera, si son fatti venire la bella pensata (a soggetto o studiata poco prima, poco importa) di recitare il Réquiem aetérnam per i morti del Coronavirus.

Istigò alla preghiera il leader della Lega, prima con la scusa di pochi minuti di silenzio per i diecimila morti falciati dal morbo contemporaneo, con piglio più stentoreo che solidale come parlasse delle Termopili, poi insufflando nella conduttrice – in lamè blu e tendine del polpaccio ben teso sul tacco 14 d’ordinanza – quell’idea: potremmo anche dire l’Eterno Riposo. Detto fatto: Barbara non è una che fa un plissè, anche dinanzi alla più indecente delle proposte, ben lieta anzi di rilanciare, a mani già giunte: «Se vuoi lo recito io, sono una che ogni sera fa il Rosario e lo dico apertamente, non me ne vergogno affatto (“anch’io!”, ha detto lui fiondandosi prontamente sull’assist religioso)». Poi, appunto, la preghiera, biascicata a dire il vero un po’ velocemente, nemmeno tanto in sincrono e alla fine non si capisce perché, dopo tutta questa mistica baldanza, quasi come parlassero a un Paese di infedeli, forse per sopraggiunto pizzichino di vergogna, per intempestiva resipiscenza, per tardiva consapevolezza d’essersi spinti più in là, ma questa è un’ipotesi alla quale nemmeno fior di sociologi della comunicazione crederebbero.

Comunque, una pietra miliare e un macigno morale pur in quel Paese di Credulonia che sono gli appuntamenti feriali e festivi della D’Urso specie in tempi di Coronavirus, quando esauriti i virologi, gli infettivologi, i medici eroi, gli infermieri in trincea, i direttori sanitari, i produttori di mascherine, i testimonial delle salvifiche detersioni quotidiane, la parola va a soubrette, giornaliste, drag queen, onorevoli in ombra – anche in quiescenza va bene uguale – dove si ricicciano, giorni dopo che sono stati già spediti in archivio tra noia ed imbarazzo perfino dai teenager che abitano il web, i video realizzati per un pubblico di sempliciotti, per bocche buone avide di fake. La preghiera dei morti però ci mancava, la catarsi fideistico-spirituale come ultima spiaggia, o forse penultima perché chissà di cosa questa tv sarà capace ancora.

Due tasti più in là, su La7, sempre domenica sera c’era l’omologo maschile di Barbarella, senza lamè né tacchi, in giacca e cravatta, Massimo Giletti: anche lui in un misticismo di sé e della sua mission, anche lui lancia in resta come un crociato ma laico, anche lui con i video virali a loop, niente preghiere ma petto in fuori da giustiziere della notte contro ribalderie, ruberie, inganni, reticenze, vigliaccherie, burocrazie, Coronavirus in versione tutta la verità nient’altro che la verità. Una tv di finte belle intenzioni, talmente artificiose che durano un fiato per infrangersi sempre sulla lubrica bulimia di pecorecce polemiche teleguidate tra i soliti Briatore – che impartisce lezioni su come uscire dall’emergenza economica imposta dal virus come desse la ricetta del Margarita – e i soliti Vauro – che sembrano usciti dalla riunione della sezione di partito a Pescia – con il solito squallido teatrino di quello che gli dice testa di cazzo e l’altro che lo manda affanculo.