In un articolo, pubblicato sabato su Repubblica, l’ex presidente dell’antimafia regionale, Claudio Fava, spiega perché il centrosinistra non ha più “i titoli morali per chiedere le dimissioni di Renato Schifani”: inciuci, consociativismo, pratica spartitoria di mance e di nomine, scelte servili e, soprattutto, nel 2022, la beffarda candidatura alla presidenza della Regione di Caterina Chinnici, ex assessore nella giunta di Raffaele Lombardo e destinata a tornare, com’è puntualmente successo, nel ventre molle del centrodestra per acquistare nuovi incarichi e nuovi privilegi.
Ventiquattr’ore dopo, esattamente domenica, per un irridente capriccio del destino, ecco il leader siciliano del Movimento Cinque Stelle, Nuccio Di Paola, fotografato nel “bar dei pagnottisti” dove discute di rilancio politico e di ambiziosi traguardi con Maurizio Scaglione, il faccendiere di stampa e comunicazione che in un solo anno ha rastrellato da Palazzo d’Orleans affidamenti diretti per oltre mezzo milione di euro; che pesca denaro pubblico in aziende, comuni, enti e consorzi controllati dalla Regione; che riceve incarichi e “pagnotte”, chiamiamole così, non solo da Gaetano Galvagno, e Francesco Paolo Scarpinato, meloniani di prima fila, ma anche dalle punte più affilate e clientelari della Dc cuffariana: a cominciare da Ignazio Abbate, ex sindaco di Modica e presidente della prima commissione parlamentare di Sala d’Ercole; quella degli Affari istituzionali, dalla quale transitano, manco a dirlo, tutte le nomine di governo e sottogoverno.
Strano destino, quello di Nuccio Di Paola, vice presidente dell’Ars. Nel settembre del 2022 è arrivato a Palazzo dei Normanni con l’aureola del duro e puro e nei tre anni successivi non si è mai accorto delle scempiaggini orchestrate da Galvagno, suo vicino di banco, e da Sabrina De Capitani, l’ape regina degli intrighi e degli azzardi messi a punto tra i mosaici della Cappella Palatina e la stanza dorata di re Ruggero. Anzi. Di Paola, come tutti i membri dell’infausto consiglio di presidenza, ha avallato con indicibile disinvoltura tutte le tresche, gli sprechi e le manovre da basso impero con le quali Galvagno e la sua portavoce – sotto inchiesta della magistratura per corruzione – hanno spalancato le porte dell’Ars e della Fondazione Federico II alla famigerata corrente turistica di Fratelli d’Italia, una confraternita sotterranea di potere direttamente controllata dal balilla Manlio Messina, già costretto da un duro intervento dello stato maggiore di via della Scrofa a rassegnare le dimissioni da vice capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati.
Strano destino quello dei grillini, oggi radunati sotto lo scettro di Giuseppe Conte. Erano partiti col proposito – ah, quanto velleitario – di “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e di scoprire tutti gli inciuci”; ma nella scatoletta ci sono finiti loro e ora ci nuotano con la leggerezza e l’allegria dei reduci di Coblenza, cioè di quei nobili imparruccati che, finita la rivoluzione e sbaraccato il palchetto infame della ghigliottina, sono rientrati a Parigi e si sono dati anima e cuore alle feste, ai divertimenti, alla gayeté: “Nulla dimenticarono e nulla capirono”, scrissero gli storici, testimoni di quell’epoca truce e dissennata.


