Ha il merito di aver staccato 3.500 tessere (sulle 10 mila complessive di Forza Italia) in provincia di Catania; e di aver portato sottosegretari e ministri, compreso il vicepremier Antonio Tajani, a diffondere il verbo berlusconiano in quel di Taormina. Ma per il resto Marco Falcone resta il primo “imputato” per l’addio al sogno di schierare Totò Cuffaro, e i suoi, nelle liste di Forza Italia alle prossime Europee (“Se si parte dal presupposto che siamo noi ad aver bisogno di stampelle, allora si sbaglia”, ha ribadito al Giornale di Sicilia). E pertanto – anche se lo è già stato in alcuni passaggi di questa esperienza di governo – potrebbe tornare nel mirino di Renato Schifani, che pensava di esercitare controllo pieno sul partito. Non è così. Gli addetti ai lavori non l’hanno rimarcato abbastanza, ma il vero vincitore, nonché ispiratore dei nuovi asset, è proprio lui: l’assessore regionale all’Economia.

Legatissimo a Maurizio Gasparri e allo stesso Tajani, Falcone si è opposto fin dall’inizio al patto con la DC ed è riuscito, dalle sue posizioni ‘minoritarie’, a diffondere il mantra che “senza è meglio”. Senza Totò, in sostanza ci guadagna l’immagine pubblica del partito (secondo la scuola di pensiero propria di Caterina Chinnici), ma ci sarà anche più spazio per gli esponenti azzurri che vorranno partecipare alla competizione per Bruxelles, anziché fare da semplici gregari. Persino Cuffaro, amareggiato dall’esito del meeting, ha ammesso che “a non volere la DC è parte della dirigenza di FI siciliana, che sa bene chi sono stato e chi sono”. Da questa dirigenza va espunto Schifani, che solo alla fine di un incessante logorio è arrivato a prendere posizione: “Non siamo un autobus”.

Di quella dirigenza, invece, Falcone è il capolista (come sarà capolista, Chinnici permettendo, anche in Europa). E ne ha ben d’onde. Ha dimostrato di possedere spessore elettorale, come testimoniano le quasi 14 mila preferenze alle Regionali; ha tenuto testa alla rimonta del “rivale” Nicola d’Agostino, che “controlla” da remoto le operazioni della Sac di Catania; non si è piegato al leccaculismo dei tanti, troppi, che di fronte all’ipotesi della sciagura hanno abbandonato la zattera di Micciché per saltare sul carro del più forte, mantenendo inalterata la propria storia e la propria identità; e poi, ha osato sfidare Schifani su più piani, senza piegarsi ai diktat.

Sia su quello dell’Amministrazione – come dimostrano le trattative condotte con l’opposizione ai tempi della prima Finanziaria – sia su quello della politica. Ha resistito alle imboscate del presidente della Regione, che non ammette la presenza di troppi satelliti nella sua orbita, e per questo gli ha sfilato la delega ai rapporti col Parlamento prima e quella alla Programmazione poi. Finendo per commissariarlo col sempreverde Gaetano Armao ed evitando, al contempo, che qualcuno ne oscurasse l’immensa luce. Falcone è stato bravo a non demordere, a tornare in auge grazie al sapiente labor limae che ha rimesso in piedi l’Accordo Stato-Regione con il Ministero dell’Economia; e anche per ottenere – con qualche inciucio, va detto – un accordo trasversale, grazie al quale l’Ars ha potuto esitare in tempi ragionevoli l’ennesima manovra correttiva (il cosiddetto “collegato-ter”). Si è guadagnato i complimenti di un pezzo dell’opposizione e soprattutto quelli di Cateno De Luca, col quale ha posato in foto nei corridoi di Palazzo dei Normanni (ahi, se ci avesse provato uno Scarpinato qualunque), che lo vedrebbe bene come “ragioniere generale” di una Regione guidata da lui medesimo.

Serviranno la stessa spavalderia e resilienza per non intaccare troppo la prossima Legge di Stabilità, già approvata in giunta nonostante gli screzi col governatore (costati un paio di settimane di ritardo) e per cercare di tradurre le buone impressioni delle agenzie di rating e della Corte dei Conti in vantaggiosi provvedimenti per i siciliani. E’ uno abituato a lavorare e a sgomitare, Falcone; a parlare chiaro, e quando necessario ad aizzare (celebre la sfuriata contro Micciché alla kermesse di Fratelli d’Italia, quando accusò il suo ex commissario regionale di aver fatto incetta di direttori generali). E’ uno abile a guadagnarsi i titoli sui giornali non tanto per le trame oscure – come il tentativo di rovesciare Forza Italia, nell’ultima legislatura, imponendo un capogruppo “illegittimo” – ma per la propria pervicacia (Micciché l’aveva definito “più stronzo di Armao, ma almeno non racconta minchiate”). Per questo ha i voti e un esercito sempre più numeroso.

I titoli onorifici – pensate se dovesse essere eletto a Bruxelles – non rappresentano per forza una posizione di vantaggio, almeno per i prossimi quattro anni. Perché Schifani non intende cedere un millimetro del suo blasone, recuperato solo grazie all’investitura dei patrioti (non fu certo Berlusconi a volerlo sul palco d’Orleans). Grazie a quella sponda conquistò il governo della Regione e in seguito Forza Italia, estromettendo Micciché e piazzando il baluardo Caruso a sua tutela. Ma quella luce accecante, dopo Taormina, è un po’ più fioca. C’è Falcone, è vero, ma c’è anche Edy Tamajo, un ras del consenso, che ha già manifestato la propria disponibilità a candidarsi per le prossime elezioni. Ha numeri da capogiro a Palermo, ma anche lui s’è guadagnato sul campo, senza spinte esterne e senza raccomandazione alcuna, i galloni che spettano al comandante di un esercito (che finora non ha rumoreggiato granché, ligio al dovere e ai traguardi raggiunti).

Il riposizionamento dell’assessore di Mondello, proveniente dalla scuola di Totò Cardinale e dall’esperienza negativa coi renziani, è stato lento e inesorabile. Tamajo è uno di quelli che potrebbe candidarsi coi Pensionati e avere comunque un bottino di preferenze fuori dal comune. Per questo è ancora in grado di autodeterminarsi, di poter fare l’assessore senza chiedere il permesso, di assumere l’iniziativa. Ma se gli spazi di manovra risulteranno eccessivi, come Falcone, potrebbe diventare il prossimo bersaglio, la prossima lucina da provare a spegnere. La futura “vittima” del metodo dei rancori, che dal primo giorno ha ristretto il cerchio magico a pochi e qualificati “yes man” o ad alcuni cavalli di ritorno, risultati politici e affaristi senza scrupoli. A reggere la candela di palazzo d’Orleans, abbandonato per strada Totò Cuffaro, non resta che uno. Ma occhio, perché l’imperatore seleziona sudditi e avversari, e quel confine è sempre più labile.