«U mittìsti ’u fierru?». Precauzione forse utile per evitare eventuali malintenzionati ma inefficace per la voglia di libertà di una ragazza. Un ingegnoso stratagemma nel meccanismo del chiavistello e Rori – la ragazza in questione – era fuori casa. A tardissima sera, anche oltre la mezzanotte. «Non avevo paura di niente», dice ancora oggi, che ha superato la boa dei 75, Aurora Primavera Quattrocchi, detta Rori, professione attrice, da mezzo secolo o giù di lì, sacro fuoco dell’arte, agli albori e per diversi anni, non pervenuto, magari inconsapevole, o quantomeno acceso casualmente, ma certificato a se stessa solo da tre lustri, o sempre giù di lì.

E comunque, tornando al “ferro” e alla ragazzina, bastavano pochi passi sulla via Costantino Nigra, una breve discesa lungo via La Farina e via Libertà era sua, il boulevard palermitano si trasformava in un grande palcoscenico notturno sul quale – fino alla Statua – la giovanissima Rori intonava nottetempo a squarciagola «night and day, you are the one…» ed altri standard americani ma pure i titoli di un variegato repertorio. Tornava a casa appagata da quei recital quasi in solitario, al massimo con un pubblico sparutissimo e di velocissimo passaggio che magari la scambiava per matta. Intonata ma stramba.

«Rori si racconta» era il titolo della serata-omaggio. E Rori si è raccontata – davanti ad un pubblico numeroso di amici, compagni di scena, estimatori – a Funtarò, nuovo spazio cittadino per le arti musicale e teatrale, Mario Azzolini a fare da “bravo presentatore” e un po’ di testimoni dell’epoca a titillare ricordi. E lei, con una vitalità incredibile, e «senza peli sulla lingua», a rivangare non solo il suo passato ma anche la Palermo che c’era una volta, quella dei cabaret e dei teatri, dei Travaglini e di Antonio Marsala e Salvo Licata, di «Soirée» e «Palermo oh cara» ma anche di come il cinema e la tv l’abbiano resa popolare, della sua voglia inesausta di viaggiare («una volta da Roma presi un treno, un biglietto chilometrico senza destinazione: si fermò a una stazione ed è così che conobbi Genova), della gelosia di Gigi Burruano – una dozzina d’anni di alti e bassi, di “lassa e pigghia”, di chiudersi  porte alle spalle per poi riaprirle, e in mezzo il patrimonio di una figlia, Gelsomina – gelosia presunta, secondo lei, nonostante qualche pezza d’appoggio vanamente attestata dagli astanti di quel tempo.

Rori ha raccontato e raccontato, si è rivista con qualche commossa partecipazione in fitcion e film (per esempio nella bellissima scena finale di «È stato il figlio», sette/otto minuti in cui regge l’obiettivo, spesso in primo piano, con un’espressione di mater più incattivita che dolorosa), in varie sequenze di «Palermo oh cara» ripresa a suo tempo dalla Rai (sono passati 40 anni tondi) dove fu una mitica Rosuccia e non ha potuto esimersi (chi l’avrebbe fatta andar via, altrimenti?) dal cantare il leit-motiv dello spettacolo (quella «Palermu persi li quattru funtani…» che ancora oggi qualche emozione la insuffla), ha parlato di quello che fu il suo spogliarsi – il primo nudo integrale del teatro palermitano – ne «La coltellata», dei suoi primi passi sul set con Marco Risi in «Mery per sempre» («“Rori, non fare facce!”, mi raccomandò lui intimandomi d’essere quasi inespressiva in una scena ma la ripetemmo dalla mattina fino al pomeriggio e che potevo farci io se ho una faccia che probabilmente fa le facce già da sé?») o le bellissime settimane con Emanuele Crialese per «Nuovomondo»,  dell’esperienza in scena a Broadway diretta da John Turturro per le «Fiabe italiane» di Italo Calvino («mi sentivo una diva, mi avevano dato un piccolo appartamento con vista su Central Park e ogni pomeriggio facevamo le prove in un teatro di Brooklyn).

Ma ha soprattutto confessato della sua tardiva coscienza d’essere sempre stata un animale da palcoscenico: «A un certo punto, e non troppi anni fa, con le critiche entusiastiche che fioccavano da qui e da lì, con i premi che arrivavano da festival cinematografici stranieri, per alcuni dei quali non sapevo manco dove si trovasse la città dove li assegnavano, se in Francia, in Spagna, in America, dall’affetto stesso del pubblico che comunque non mi è mai mancato, dalla gente che mi sorrideva sull’autobus perché mi aveva visto la sera prima in una fiction tv, mi sono detta: “Ma vuoi vedere che sono brava davvero?”».

E infine ha cantato, con voce non incrinata dall’emozione, forse un po’ più flebile di un tempo, ma senza aver perso un grammo di intonazione: «Creola», «Veleno» e motivi che furono, tutti con piglio ironico, da varieté, come faceva in «Soirée» di Salvo Licata, fugaci tableaux di vezzose mossettine beffarde, d’umore tagliente, mordace. Perché era quello il sogno primitivo della ragazzina che sfidava le notti di via Libertà, era cantare e d’altronde l’aveva forse nel sangue con un nonno compositore e direttore d’orchestra.

Ad accompagnarla, alla chitarra, c’era Gaspare Perricone che s’è inventato Funtarò, uno spazio che ha già programmato una stagione di teatro e musica con un palcoscenico modernamente attrezzato, una bella consolle di regia, uno schermo, due sale di registrazione, una sala prove, una platea di un’ottantina di posti, in località «controtendenza», ovvero in Largo Lituania, pochi metri dopo l’ingresso del liceo scientifico «Galilei», via Danimarca, Strasburgo Avenue: lontano, insomma, dal sempre più pazzo centro storico.