Il 22 e 23 febbraio Forza Italia si appresta a celebrare un congresso, il primo dell’era post-Berlusconi, che spegnerà una volta per tutte le velleità di Schifani e i suoi seguaci nell’Isola. L’orientamento ondivago nei confronti di Tajani – prima era il migliore, ora dovrebbe dare più ascolto alle istanze dei siciliani – non è servito al presidente della Regione per guadagnare spazio e credibilità. Anzi, col passare dei giorni le sue quotazioni sono in picchiata. E le dichiarazioni ricorrenti (“E’ impensabile che un governatore possa essere vicesegretario del partito”, ha ribadito ieri da Catania), non rappresentano un passo indietro responsabile, quanto il tentativo di ostacolare l’ascesa del collega calabrese Roberto Occhiuto, ormai a un passo dalla nomination.

Il fatto che Schifani abbia in serbo un poco del suo rancore (anche) per il presidente della Regione Calabria, compagno di frequenti visite al Ministero delle Infrastrutture a sostegno del Ponte, è confermato dalla mancata partecipazione ai congressi di Viagrande, nel Catanese, qualche settimana fa, quando Schifani scelse di marcare visita all’invito di Marco Falcone. Il motivo? Ufficialmente una “lieve indisposizione”. Ma come raccontato da ‘La Sicilia’, all’appuntamento etneo era stato invitato anche il braccio destro di Occhiuto, Francesco Cannizzaro. Un’offesa insopportabile.

Schifani dovrebbe sapere che amministrare col rancore non è foriero di successo: chiedere, per informazioni all’Ars, dove il governo è andato sotto nelle ultime due votazioni nonostante la presenza in aula del presidente. Detto questo, non basteranno i numerosi delegati alla Sicilia per ritagliarsi un posto al tavolo dei grandi. “Sono certo – ha detto Schifani puntando sulla psicologia inversa – che i vertici del partito tengano presente che l’Isola è storicamente da sempre una delle regioni più azzurre d’Italia, riconoscendone quindi la giusta rappresentanza. E non per una questione di poltrone, ma per poter condividere le decisioni strategiche del partito in una logica dialettica e costruttiva”. Questo, per la verità, è un problema già segnalato in passato da Gianfranco Micciché, quand’era egli stesso il commissario regionale azzurro. Ma nessuno, né Berlusconi tantomeno Tajani, ha preso sul serio la richiesta di un diritto di tribuna. Pertanto, la Sicilia rimarrà marginale nonostante la potenza di fuoco che punta ad esprimere alle prossime Europee (l’obiettivo è la doppia cifra).

Ciò che Schifani, in maniera imprudente, non è riuscito ad ottenere in questi mesi, è la spinta unanime del suo stesso partito. Che nell’Isola è scaglionato e consumato da lotte intestine che continuano a emergere con disarmante puntualità. Le dimissioni di Giovanni Ruvolo dal Cda della fondazione Ri.Med (che promuove, sostiene e conduce progetti di ricerca biomedica e biotecnologica) è l’ultimo tassello di un puzzle variopinto. Ruvolo, infatti, oltre ad essere un cardiochirurgo stimatissimo, è il marito della deputata regionale di FI, Margherita La Rocca. Cioè uno dei due parlamentari (l’altro è Riccardo Gallo) che all’Ars danno filo da torcere al governatore: si erano opposti alla spartizione dei manager della sanità nel “retrobottega” di Cuffaro e sono contrari al fatto che la presidenza della provincia di Agrigento sia appannaggio della DC. Per questo, col voto segreto, si sarebbero opposti al ritorno dell’elezione diretta. Spuntandola.

Anche se le altre porzioni intaccate dell’impero schifaniano sono a Catania, dove Marco Falcone aspira a diventare parlamentare europeo e liberarsi così di una zavorra che lo tiene “prigioniero” da un anno a Palermo. Quella zavorra è proprio Schifani, che gli ha sfilato la delega alla Programmazione e, nella qualità di vicerè occulto, ha ri-schierato al suo fianco Gaetano Armao, assegnandogli competenze in materia di fondi extraregionali. Falcone ha dovuto chinare il capo anche di fronte alla spartizione dichiarata della Camera di Commercio del Sud-Est (che controlla la società di gestione dell’aeroporto di Catania), ma ha potuto prendersi la sua rivincita organizzato il seguitissimo meeting del buongoverno a Taormina, lo scorso novembre, da cui ha lanciato la propria candidatura per Bruxelles, ma soprattutto – con l’aiutino di Tajani e di Caterina Chinnici – ha dettato la linea maggioritaria di FI, contraria a qualsiasi tipo d’accordo con Cuffaro.

Questa opposizione silente, ma strisciante, all’interno di Forza Italia (che si è già manifestata anche alle ultime Amministrative, specie nel Siracusano) potrebbe essere rimpolpata anche da Edy Tamajo, non appena il pupillo di Totò Cardinale avrà capito di poter procedere da solo, con le proprie gambe. Non gli mancano i voti né gli amici per avventurarsi in questa operazione, che avrebbe come epilogo la rottamazione della vecchia classe politica, di cui Schifani è il principale esponente.

Forza Italia, che avrebbe dovuto trarre beneficio dall’incisività del suo massimo rappresentante di governo, in realtà è impalpabile: sia all’interno del parlamento, dove non c’è una sola iniziativa attribuibile al suo blasone (si ricordano soltanto le difese d’ufficio del capogruppo Pellegrino ogni qualvolta il governatore viene “denunciato” per immobilismo); che sul territorio, dove i congressi, celebrati di recente, hanno confermato l’imprinting del presidente della Regione – quantomeno sul fronte delle poltrone – e dato spazio solo ai suoi uomini di fiducia (in primis l’avvocato Pietro Alongi, che dopo la promozione in giunta a Palermo, è diventato coordinatore provinciale del partito).

Vince la teoria del “meno siamo, meglio stiamo”, e così primeggiano ovunque i supporter incalliti di Schifani. Che rappresentano se stessi e basta. Perché FI, assieme alla sua aspirazione di diventare la casa dei moderati, ormai si è liquefatta. La quota dei dodicimila iscritti, in Sicilia, dovrà effettivamente misurarsi con la quantità dei voti ricevuti nelle urne. Se saranno proporzionali alla quantità di governo erogata da Schifani, sarà il de profundis. L’obiettivo (non ancora dichiarato) è “scongelare” Caterina Chinnici, nella speranza che la professione di paladino antimafia possa portare acqua al mulino azzurro, dopo averne portata, e in abbondanza, a quello del Pd.

Tuttavia, Forza Italia resta un partito apolide, senza connotazione. Soprattutto nell’Isola. A questo livello – fa strano dirlo ma è così – ci sarebbe potuti distinguere provando ad arginare i numerosi fallimenti di questo primo anno di legislatura, anziché accoglierli in maniera supina. A partire dalla surroga di Falcone, assessore capace e infaticabile, con l’ex Armao, che alle ultime elezioni stava dall’altra parte della barricata e i cui disastri sono stati evidenziati a più riprese dalla Corte dei Conti. Sarebbe bastato porre un quesito, mostrarsi interessati, contribuire al livello del dibattito e dell’azione di governo, per ritagliarsi un diritto di cittadinanza politica. Che adesso sembra precluso: sempre che non si voglia confondere Forza Italia, quella delle origini, con il nuovo partitino di Schifani. Entità diverse e non sovrapponibili, anche se qualcuno non ha mai smesso di provarci.