Chi si sforza di far apparire “normale” quello che sta accadendo in queste ore in Forza Italia, è fuori strada. Perché la competizione interna fra due blocchi contrapposti, arricchiti dalla presenza di ospiti ingombranti quali Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, è molto più infuocata di cinque anni fa, quando i candidati preminenti – Giuseppe Milazzo e Saverio Romano – finirono per logorarsi e insultarsi a vicenda. Questa volta non è solo una sfida per la guida del partito, conteso dagli assessori regionali Falcone e Tamajo; gioca un ruolo fondamentale Antonio Tajani, che ha calato la lista direttamente da Roma; ma anche Renato Schifani, che nelle ultime ore ha rilanciato l’ipotesi di un bis a Palazzo d’Orleans (pur mancando tre anni alla fine della legislatura). E siccome le parole non sono mai pronunciate a caso, fa discutere il pensiero di Giorgio Mulè, vicepresidente della Camera dei Deputati, molto vicino a Tajani e alla famiglia Berlusconi, e “spia” delle posizioni romane rispetto alla gestione del partito nell’Isola.

Un partito guidato da Schifani, per il tramite del suo ventriloquo (Marcello Caruso), che appare in aperto contrasto rispetto alle scelte maturate a Roma: una su tutte, l’imposizione di Caterina Chinnici nel ruolo di capolista. Leggete cosa dice Mulè al quotidiano ‘La Sicilia’: “Il partito in Sicilia ha una signora capolista che si chiama Chinnici. Attorno a questa figura, per la storia e per la figura che rappresenta, io mi aspetto che tutti i candidati e i militanti la prima preferenza la diano a lei: questo significa riconoscersi nei valori di un partito”. Tralasciando il fatto che la Chinnici non ha mai spiegato il motivo del passaggio dal Pd ai berluscones – fingiamo per un attimo che non si tratti di trasformismo – e che già gode di un contenitore cospicuo di preferenze, garantitole dal Mpa di Raffaele Lombardo, la questione è un’altra. E cioè che da Roma si aspettano il massimo del riconoscimento per la magistrata scelta da Tajani a tutela dell’immagine del partito, soprattutto sotto il profilo etico e morale. E invece i Renato-boys la ostacolano: dapprima proponendo una federazione con la DC di Totò Cuffaro (bocciata sul nascere), e infine decidendo comunque di “amministrare” una parte dei suoi voti, attraverso l’esca di Noi Moderati, per far pendere la bilancia dalla parte di Schifani.

Un messaggio palesato da un altro pezzo del colloquio fra Mulé e il collega Barresi: “Il presidente della Regione ha una grandissima responsabilità, perché deve essere la persona che toglie con parole chiare qualsiasi velleità o tentativo di accreditare disegni che non potranno trovare alcuna tavolozza nel quadro politico di Forza Italia”. La tavolozza descritta da Mulè è quella che prevede alcune terzine fra le più variopinte. Quella che va per la maggiore esprime sulla scheda elettorale i nomi di Edy Tamajo e Massimo Dell’Utri, l’unico che Cuffaro sostiene ufficialmente, assieme a quello della deputata regionale Bernardette Grasso, garante della preferenza al femminile. Il quadro è facilmente desumibile dagli inviti inoltrati via chat da alcuni componenti della DC, da Palermo a Ragusa, che organizzano incontri con tutti e tre. Mulé avverte che “la Dc ha un accordo con Noi Moderati, federato con noi, che ha un suo candidato fra gli otto della lista. Ma di certo gli elettori cuffariani non determineranno alcun assetto in Forza Italia, perché il loro candidato ha preso una preferenza in più”.

Ma se al candidato ufficiale se ne aggiungessero un paio di “ufficiosi”, magari non dichiarati, il quadro sarebbe destinato a mutare. E questo sì che finirebbe per determinare uno sbilanciamento del partito verso l’asse schifaniano. Il governatore era stato il primo a invitare Cuffaro nella grande famiglia azzurra, ma ha dovuto rimangiarsi tutto, nella convention organizzata a Taormina da Falcone, per il niet combinato di Tajani e Chinnici (con la scusa banalotta di non voler avere a che fare con un uomo che già scontato la sua condanna). Ora che l’ex presidente ha avuto accesso dalla porta di servizio, grazie a Lupi e Romano, è impossibile però fingere indifferenza. Una suggestione? Chissà… Intanto nei famosi inviti di cui sopra si legge che “la Democrazia Cristiana sostiene il progetto politico di Forza Italia e Noi Moderati in Europa”. Di entrambi. Sarà un dettaglio, ma è utile farci caso.

Anche se Mulè è chiaro e vorrebbe escludere in partenza qualsiasi inciucio: “Questa non è un’elezione in cui ci si conta con i candidati e chi lo fa sbaglia: la storia del derby Palermo-Catania, su chi deve condurre il partito o chi deve decidere il prossimo presidente della Regione è sbagliata e chi la racconta va contro i principi del partito”. Dunque, “è bene che tutti si diano una calmata: non è un tiro alla fune, non conteremo chi casca e chi no, alla fine il successo sarà di Forza Italia, in ballo non ci sono equilibri futuri, né regolamenti di conti”. Almeno nelle intenzioni. Perché nella pratica di tutti i giorni, fra Tamajo e Falcone non sono mancate le scintille. E nessuno dei due, oltre ai formali richiami all’Europa, è così sciocco da non sapere che con un voto in più potrebbe cambiare il corso delle cose. Non tanto a Bruxelles e Strasburgo, dove (quasi) tutto è destinato a rimanere com’è. Ma a Palermo, e nella fattispecie dentro Forza Italia.

Persino Gianfranco Miccichè, intorbidito dalle vicende personali e processuali, era tornato in campo a sostegno di Marco Falcone (da sempre suo rivale) e Chinnici, la new entry. Magari, come dice, perché sostiene che abbiano le competenze per andare in Europa. Ma quasi certamente per porre dei paletti al dominio della confraternita di Schifani, rea di averlo cacciato dal partito nel momento di massima goduria e aspirazione (cioè dopo aver contribuito alla sua elezione). In questo intreccio infernale, non rimane che aspettare. Con la certezza che all’indomani del voto, checché ne dica Mulè, qualcuno potrebbe non riuscire a riemergere dalla superficie dell’acqua.