Non è che prima i giornalisti non scivolassero sui luoghi comuni, refugium peccatorum della lingua sciatta e del conformismo dell’anima, prima ancora che professionale.

Ma il fenomeno era più limitato. Perfino più stagionale. Nonostante suscitasse sempre sfottò in redazione. C’era chi mascherava la pigrizia dichiarando di volere usare apposta la frase fatta, magari per fare dispetto al direttore. E chi faceva raccolta di banalità e pregiudizi, come fossero figurine Panini da scambiare con altri collezionisti.

La trappola scattava soprattutto durante il lavoro domenicale e festivo. Erano i giorni “dell’esodo dei vacanzieri” che si trovavano inevitabilmente ad affrontare “il traffico intenso ma scorrevole, con lunghe code al Brennero”. Se la partita di calcio giocata quella domenica finiva zero a zero, era un “risultato ad occhiali”.

Nei giorni di Pasqua, Pasquetta e Primo Maggio appassionava la “gita fuori porta” magari “in una ridente località a due passi dal mare”. La località, va da sé, poteva continuare a ridere anche se “abbarbicata sulle pendici dei monti”. Perché in ogni caso “nella splendida cornice” si trovava.

Roba innocua, tutto sommato. Anche perché in quell’età del piombo – in senso tipografico, ovviamente – non erano ancora in auge i diktat del politicamente corretto. E siccome il gusto, buono o cattivo che sia, è una qualità opinabile e all’epoca non censurabile su base deontologica, c’era chi si accaniva sulla beltà sfiorita di una donna “ancora piacente” e chi scherzava sulla durata di una “tromba marina” che aveva “flagellato le coste”.

Oggi lo stereotipo, cioè l’opinione precostituita e ripetuta all’infinito, non verificata da esperienza diretta, coincide perfettamente con la lingua parlata. Succede nei giornali e non solo. Ed è un linguaggio più esausto. Che si affanna a stare appresso alla quantità delle comunicazioni e trascura la qualità.

In una società sempre più tesa all’oligarchia – che non è affatto “il governo dei migliori” come sa chi ha studiato il greco – la chiamano “infodemia”, cioè un eccesso di informazioni difficile da controllare e ancora di più da decifrare. Figuriamoci in Italia. Che secondo i dati Ocse è il quarto paese, dopo Indonesia, Turchia e Cile, per incidenza di adulti incapaci di comprendere un testo o un’informazione a fronte della scolarizzazione acquisita.

Ecco, retorica avanzando e analfabetismo dilagando, “la punta dell’iceberg” dell’informazione ai tempi della pandemia è quanto avviene “nella cabina di regia”, che è l’apoteosi, il regno dei luoghi comuni, l’adattamento ai tempi odierni (c’è chi dice: “cabina di regime”) della “stanza dei bottoni”, dove almeno si azionavano i comandi.

Dalla regia, come sa bene chi c’è stato, non si dirige proprio niente. Piuttosto si decide cosa inquadrare, cioè il punto di vista.

Come quando, ormai due anni fa, con l’hashtag #andràtuttobene si decise di far vedere in tutti i Tg, e non solo, i balconi pieni di gente che “si stringeva a coorte” cantando di “essere pronta alla morte”, il che è tanto verosimile quanto le attuali affermazioni sul vaccinarsi come “atto di amore” o almeno “gesto di altruismo”.

Nella vulgata giornalistica “la cabina di regia” sa cosa fare, “non abbassando mai la guardia” e “rimboccandosi le maniche” come il cavaliere Mussolini in versione agricola tra i covoni della Pianura padana, per la gioia dell’Istituto Luce.

Oggi “nel contesto della crisi globale” abbiamo una “task force” che porterà l’Italia “fuori dal tunnel” sulla scia delle indicazioni, non univoche, dei dotti medici e sapienti sempre rinchiusi a lavorare “nella cabina di regia” governativa, quando non sono in Tv.

Certo, serve la “resilienza” del paese, tanto evocata da risultare logora anzitempo.

Però si calcola di continuo – ah, la vecchia regola mediatica della inconfutabilità dei numeri, interpretabili ma non verificabili – “l’indice di positività” dell’universo mondo, tenendo conto che “positivo” ha assunto un significato negativo nel tempo al contrario della pandemia.

Indi si procede coi tamponi per tamponare l’emergenza, altro esempio di slittamento semantico di un termine prima usato soprattutto nell’accezione dello scontro tra auto.

Ma il capolavoro dello stereotipo pandemico è l’identikit dell’untore di turno. Si è cominciato piano piano, ma con grande enfasi. Ricorderete i passeggiatori seriali di cani “in pieno lockdown” e il corridore solitario sulla battigia di una spiaggia, meritevole di essere ricercato con gli elicotteri militari. Adesso siamo ai bambini che, sotto il peso della responsabilità della salute di nonni e prozii, ritrovano il gioco e la leggerezza della loro età, vaccinandosi tra pagliacci e palloncini.

Un caso a parte sono i reprobi no vax, solo in Italia alcuni milioni; nella narrazione dominante: “gente strana, complottista e incolta, credono che la terra sia piatta, e manifestano col rosario in mano”.

Sono loro, che “non fidandosi della scienza e delle istituzioni”, forse perché frastornati dai continui cambiamenti di opinione sanitaria nella “cabina di regia” (vedi la fine indecorosa di Astrazeneca), hanno sciupato l’immagine del “Paese unito” e della “Costituzione più bella del mondo”, come dire, i luoghi comuni prediletti dalla politica.

E dato che la malattia è “il tema centrale di ogni narrare”, per dirla con Gesualdo Bufalino che ne aveva contezza, sarà la storia a stabilire – sic transit gloria mundi – chi saranno i “catecumeni del nulla”.