Ma sì, brindiamo pure al bavaglio e rendiamo omaggio dl ministro della Giustizia che – ancora una volta, dopo mille altre volte – tenta di arginare la deriva, tutta italiana, dello sputtanamento. Ma sì, accogliamo pure, con un applauso sincero, l’entrata in vigore della legge che teoricamente impone alle procure, e agli inquirenti tutti, di rispettare il principio costituzionale della presunzione d’innocenza e “fa assoluto divieto” a tutti i magistrati di impiccare gli indagati all’albero della gogna, di dare per certi fatti che devono ancora essere accertati, colpe e responsabilità che devono essere ancora verificate.

Ma sì, facciamo finta di credere che la legge firmata da Marta Cartabia, ministro guardasigilli del governo presieduto da Mario Draghi, possa dare immediatamente i suoi frutti e che i rapporti tra gli uffici giudiziari e i giornali possano essere circoscritti, da oggi in poi, a una paludata conferenza stampa del procuratore capo o, in subordine, a un gelido comunicato nel quale si elencano burocraticamente gli elementi che hanno autorizzato “l’apertura dell’inchiesta in oggetto ai sensi e per gli effetti dell’articolo questo o quello del codice di procedura penale”. Sì, crediamoci. Ma non possiamo far finta di ignorare quello che è successo negli ultimi trent’anni, e che ancora succede, dentro e fuori i palazzi di giustizia.

E’ successo che i magistrati, soprattutto quelli coraggiosi, hanno utilizzato il legame stretto e malsano con giornali e televisioni per glorificare ogni loro gesto, per rivestire di coraggio ogni loro iniziativa, per guadagnarsi un monumento nel piazzale degli eroi e avere quindi le mani libere contro ogni altro potere. In particolare contro il potere politico. Per abbattere il quale – ormai lo sanno pure le pietre – basta pochissimo: una indiscrezione, una frase strappata dal brogliaccio delle intercettazioni, un’insinuazione, un accenno a una relazione pruriginosa, un pizzino, una cartuzza trovata nel cestino della spazzatura che la stampa fidalizzata trasformerà immancabilmente, con una sfacciata dose di complicità, in un “libro mastro delle tangenti”. E’ la sublime arte del “mascariamento”, bellezza!

Diciamolo: il “segreto istruttorio” esiste sin da tempi in cui c’erano i procuratori del regno. Non l’ha inventato Marta Cartabia con la legge entrata in vigore ieri. E’ fissato nell’articolo 329 del codice di procedura penale ma è il segreto che vanta, in assoluto, il maggior numero di violazioni. I sistemi per aggirarlo sono molteplici e non c’è riscontro, negli annali della storia giudiziaria, che un magistrato sia stato punito per avere passato sottobanco al suo giornalista di fiducia una notizia che non poteva dare, o lo stralcio di un interrogatorio o di un verbale che per nessun motivo poteva essere pubblicato, diffuso e amplificato. Ogni tanto – e quando non ne può proprio fare a meno – il capo della procura, dove è clamorosamente crollato il muro della riservatezza, lancia un segnale di rigore e apre una inchiesta per fuga di notizie. Lui, il signor Capo, conosce a menadito i canali attraverso i quali è stato compiuto il misfatto. E sa pure chi è il magistrato che ha combinato il guaio. Ma siccome cane non mangia cane, si limita a sventolare il peccato ma non il peccatore: apre il fascicolo con l’assoluta certezza che il procedimento sarà trasferito alla procura di un altro tribunale perché la legge impone che nessun ufficio giudiziario possa mai indagare sui propri uomini. Per quelli di Palermo c’è Caltanissetta, per quelli di Roma c’è Perugia, per quelli di Milano c’è Brescia. E così, saltellando da una procura all’altra, ogni peccato si dissolve in una impunità reale, effettiva, sicura.

Il cronista giudiziario che gira ogni giorno per i corridoi del Palazzaccio ha fiuto e individua facilmente il magistrato con il quale stringere una liason di reciproche confidenze. Generalmente posa l’occhio sul pubblico ministero che mostra un amore particolare per i talk-show e per i dibattiti in studio, che non si perde la presentazione di un libro né una manifestazione per i diritti civili; che ama scrivere pensosi articoli – lui li chiama “editoriali” – sui giornali di maggiore grido; che ripete in ogni intervista di essere lontano mille miglia dalla politica ma sotto traccia si compiace di fiancheggiarla, di contrastarla, di indirizzarla: con i suoi metodi e secondo i propri interessi. E’ il magistrato di prima fila quello che piace tanto al circo mediatico; perché il magistrato di prima fila è abitualmente quello che ha in mano i più importanti procedimenti per mafia o per corruzione. Roba incandescente. Il giornalista gli promette ovviamente la massima visibilità, gli garantisce la più completa copertura e il gioco è fatto. Un gioco riservatissimo, va da sé. Nel quale comunque non rischia nessuno dei due: né il pm né il cronista. Quest’ultimo, se mai venisse chiamato a rispondere della fuga di notizie, potrebbe sempre opporre il segreto professionale: “Sono un giornalista e mi avvalgo della facoltà di non rivelare la fonte”, questa la formula di rito. Segreto professionale contro segreto istruttorio. E basta questo per spegnere ogni fuoco.

Un tempo, quando giustizia e informazione non giocavano ancora sul tavolo dell’azzardo, era il giornalista che aveva un forte interesse a squarciare il velo del riserbo: si guadagnava il pane e, se l’indiscrezione comportava un titolo a cinque, sette o nove colonne, si portava a casa una lettera d’encomio se non addirittura una promozione. I magistrati invece erano molto cauti. Al massimo ti invitavano nella loro stanza e, con finta indifferenza, poggiavano sotto i tuoi occhi il fascicolo, oggetto del tuo desiderio. Poi fingevano di andare al bar o in bagno e ti concedevano cinque o dieci minuti di solitudine: giusto il tempo per sbirciare tra le carte del dossier e trovare la notizia che avrebbe coronato di successo la tua giornata di lavoro.

Dopo – soprattutto negli anni infuocati di Mani Pulite e delle prime inchieste per mafia – le parti si sono invertite. Ora sono soprattutto i magistrati di prima fila che cercano i cronisti, che inseguono il fascino del titolo cubitale in prima pagina. Lo fanno non solo per rivestire di sacralità la propria inchiesta, ma anche per annientare la capacità difensiva dell’indagato. E’ la strategia del fango. O dello sputtanamento, appunto. Per il quale – ammettiamolo – non è necessario nemmeno violare il segreto istruttorio. Il codice di procedura penale – lo sbeffeggiatissimo articolo 329 – prevede che l’obbligo della riservatezza decade nel momento in cui il pubblico ministero deposita gli atti e mette tutto ciò che ha raccolto – intercettazioni, deposizioni, verbali, perizie, rapporti di polizia giudiziaria – non solo a disposizione del Gip, che è giudice per le indagini preliminari, ma anche della difesa.

A quel punto il gioco si fa più sottile ma anche più perverso, più cinico, più destabilizzante: con la banalissima scusa di descrivere il contesto – parola chiave – nel quale il presunto reato sarebbe maturato il magistrato inquirente offre all’opinione pubblica, sull’altare del dileggio, anche dettagli privi di valenza penale ma comunque infamanti: una inconfessabile telefonata tra amanti, un estratto conto regolare ma con cifre tali da scandalizzare i leoni da tastiera, una imperdonabile volgarità contro un uomo delle istituzioni santificato in vita e venerato da tutti, una volgarissima lite tra marito e moglie, magari già risanata dal tempo e rimodulata non a caso in chiave criminosa e criminalizzante. Sconcezze, insomma. Raccattate in ore e ore di intercettazioni telefoniche o ambientali, in ore e ore di registrazioni eseguite con la barbarica e invasiva tecnica del trojan. Sconcezze o nefandezze, certo. Comportamenti indecenti, certo. Anche peccati contro il quarto o il sesto o il nono comandamento. Ma non reati.

Negli anni Novanta – anni di furore antimafia – la procura di Palermo riuscì a istallare una cimice in casa di Corrado Carnevale presidente della prima sezione penale della suprema Corte di Cassazione. Le intercettazioni andarono avanti per oltre sette mesi, i pm cercavano le prove di un favoreggiamento dell’alto magistrato nei confronti di Cosa nostra. Non trovarono nulla di penalmente rilevante. Ma registrarono una frase pronunciata da Carnevale a casa sua, nel chiuso del suo studio: “Falcone e Borsellino sono due cretini”, si lasciò sfuggire in un momento in cui credeva che le proprie teorie giurisprudenziali potessero prevalere su tutto, anche sulla sete di giustizia che spingeva Falcone e Borsellino a sfidare i sanguinari corleonesi di Totò Riina. Apriti cielo. Quell’oltraggio ai due magistrati straziati poi dalle stragi di mafia suscitò un’indignazione enorme, senza fine. La procura lo inserì non a caso tra gli atti depositati e Carnevale andò a processo già sconfitto, già perdente, già segnato dalla stessa croce penitenziale con la quale la Confraternita dei Bianchi accompagnava al patibolo i condannati della Santa Inquisizione. Ci vollero anni, molti anni prima che “l’ammazzasentenze” – così lo svillaneggiavano – facesse prevalere le proprie ragioni con una sentenza di assoluzione che non gli ha lasciato addosso nessuna ombra.

Sono tante – e tutte scivolose e tutte serpigne – le vie dello sputtanamento. Ci hanno provato in tanti ad ostruirle, a smantellarle, ad affermare lo stato di diritto, a spezzare quel patto, sotterraneo e limaccioso, che da almeno trent’anni lega le ambizioni dei magistrati alla spregiudicatezza dei giornali. Le regole della Cartabia sono un buon segno. Solo un segno, purtroppo.