Stipendi arretrati, condutture che perdono più acqua di quanta ne distribuiscono, riforme mai portate a termine. La crisi dei Consorzi di bonifica siciliani, certificata da una radiografia di Accursio Sabella su Repubblica, è solo l’ultimo capitolo – ma non certo il più sorprendente – di una Regione amministrata per decenni senza visione e, spesso, senza controllo. Undici consorzi – anzi tredici – che avrebbero dovuto fondersi in due macro-strutture: era la promessa del governo Crocetta. Ma, come spesso accade da queste parti, la riforma è rimasta sulla carta, e le vecchie strutture sono sopravvissute a sé stesse. Con tanto di bilanci separati, dirigenti, personale e debiti. Tanti debiti: almeno 180 milioni, secondo i sindacati.

Nel frattempo, la rete irrigua perde oltre il 60% dell’acqua. Alcuni invasi non possono essere utilizzati per mancanza di collaudi (contengono circa un terzo dell’acqua che potrebbero contenere). E la siccità bussa la porta. Ma non è tutto: i lavoratori, ad Agrigento come a Ragusa, non percepiscono lo stipendio da mesi. Per questo, da giorni, sono in corso assemblee permanenti e presìdi nei territori. L’Ars ha stanziato qualche milione per tappare le falle più vistose. Ma la falla strutturale rimane: e non c’è legge che tenga, se mancano le risorse.

Ora il governo Schifani ci riprova. Una nuova riforma, che dovrebbe portare a quattro Consorzi (Nord e Sud, tra Oriente e Occidente), è in discussione all’Ars. Ma anche stavolta, denunciano sindacati e opposizioni, il rischio è quello di ottenere una scatola vuota. I fondi stanziati non basterebbero nemmeno a coprire le spese per il personale, aggravate dagli aumenti contrattuali e dalle stabilizzazioni. Per il Pd si tratta dell’ennesima “riforma di facciata”. E nel frattempo c’è chi sabota fisicamente la rete idrica, come accaduto nell’Agrigentino, presso la Diga Gammauta: un gesto criminale che l’assessore Barbagallo ha definito “intollerabile”, ma che racconta anche il livello di sfiducia e di caos in cui versa il sistema. Il paradosso dei Consorzi è che sono troppo poveri per funzionare, ma abbastanza “ricchi” da offrire qualche incarico. Ed è esattamente questa, in fondo, la filosofia che accomuna quasi tutte le partecipate regionali: strutture in affanno quando si tratta di erogare servizi, ma abilissime nel drenare risorse pubbliche.

L’Ast, ad esempio, è l’emblema di un’azienda tecnicamente fallita e politicamente salvata. Dopo l’ennesimo risanamento da 40 milioni, il governo regionale ha varato la “rinascita” in house: dal primo luglio, l’azienda riceverà senza gara l’affidamento di 12,3 milioni di chilometri di trasporto pubblico, per un valore complessivo di 235 milioni in nove anni. È previsto un piano di 158 nuove assunzioni e la stabilizzazione di 120 interinali. Una svolta occupazionale, certo, ma anche un gigantesco spot elettorale.

E poi c’è la Sas, la Servizi Ausiliari Sicilia, che continua a crescere come un mostro a più teste. A maggio, la giunta ha approvato la stabilizzazione di altri 424 lavoratori, ex Pip, portando l’organico complessivo a 3.577 dipendenti. Un’operazione che segue l’inserimento, nel 2023, di ulteriori 1.418 precari dello stesso bacino. Tutto viene presentato come frutto di una pianificazione “razionale” e condivisa, ma resta il nodo centrale: nessuno spiega davvero quali mansioni svolgeranno, come saranno inseriti nei servizi, e soprattutto con quali criteri siano stati selezionati. Si continua ad assorbire bacini storici di precariato senza una vera valutazione di competenze o fabbisogni, in uno schema che premia l’appartenenza molto più della meritocrazia.

E intanto, attorno alla Regione, ruota un vero e proprio tessuto “partecipativo” fatto di circa 60 società partecipate (comprese quelle in liquidazione ormai da anni) e un’ottantina di enti controllati . Alcuni hanno un senso strategico – come Siciliacque o IRFIS – altri servono più a distribuire poltrone, consulenze e incarichi. Ma tutti, nessuno escluso, concorrono al bilancio consolidato della Regione Siciliana. Significa che le loro perdite diventano problemi della Regione. E quando i conti non tornano – succede spesso – è Palazzo d’Orléans a mettere mano al portafoglio. È già accaduto con AST, ed è accaduto con Airgest, la società che controlla l’aeroporto di Trapani, più volte salvata dal collasso con fondi pubblici. Il tutto, ovviamente, senza che mai si apra un vero processo di valutazione su costi, benefici e obiettivi.

In questo contesto, ha suscitato scalpore – e una sonora bocciatura in aula – la proposta dell’assessore all’Economia, Alessandro Dagnino, di rivedere al rialzo gli stipendi dei manager delle partecipate. La norma, formalmente, prevedeva un taglio ai compensi base ma apriva alla possibilità di bonus sostanziosi (con guadagni fino a 112 mila euro annui) per gli amministratori delegati delle società più importanti, legati al raggiungimento di obiettivi. Il disegno è stato affossato con voto segreto, lasciando l’assessore a interrogarsi sulle vere ragioni del no. Dagnino ha provato a spiegare che “la norma puntava ad attrarre figure qualificate, ma forse in aula qualcuno ha temuto che l’aumento andasse a beneficio dei manager veri, tagliando fuori il sottogoverno”.

E proprio lì sta il punto: in Sicilia, il sistema delle partecipate è spesso percepito come un bacino clientelare più che uno strumento di servizio. Una zona grigia dove possono trovare spazio gli esclusi dalla politica attiva. I cosiddetti “trombati”. Non sia mai che un manager guadagni più di un deputato…