Il tema europeo del momento è il Green Pass ovvero, per i puristi della lingua come me, il certificato verde digitale. Cominciamo facendo chiarezza fin da subito: non è – come ha detto qualcuno – un passaporto vaccinale. Qualcuno lo celebra come la panacea di tutti i mali, o del male, tragico, del momento, in linea con le dichiarazioni trionfalistiche con le quali i super burocrati della Commissione Europea amano presentare le loro grandi “pensate”, altri, quelli che scorgono lesioni dei diritti fondamentali ed inviolabili a tinchité, ne vedono un ulteriore strumento di coercizione ed imposizione da parte della matrigna Europa che altro non vuol fare che schiavizzare i sudditi. Invero nella ricerca del “giusto mezzo” ne scorgerei semplicemente un utile strumento di armonizzazione delle norme atte alla regolamentazione della circolazione dei cittadini europei al suo interno nonché di quelli extracomunitari che devono attraversare i confini dell’Unione europea (eccetto quelli che giungono a bordo dei barchini per i quali c’è semaforo verde continuo…) e in tale utilitaristica prospettiva sto contribuendo ad emendare il testo, quale membro della commissione competente in Parlamento Europeo, con non poche perplessità.

La proposta della Commissione presentata lo scorso 17 marzo per facilitare l’esercizio del diritto di libera circolazione nell’UE durante la pandemia di COVID-19, intende istituire un quadro comune per il rilascio, la verifica e l’accettazione di certificati interoperabili relativi alla vaccinazione, ai test e alla guarigione dal COVID-19.

Certificato interoperabile che consta di tre versioni tra loro alternative: un certificato comprovante che al titolare è stato somministrato un vaccino anti COVID-19 nello Stato membro, il cosiddetto “certificato di vaccinazione” ovvero un certificato indicante il risultato per il titolare e la data di un test molecolare o di un test antigenico rapido, detto “certificato di test” ovvero, infine, un certificato comprovante che il titolare risulta guarito da un’infezione da SARS-CoV-2 il cosiddetto “certificato di guarigione”.

Esso sarà rilasciato in formato digitale o cartaceo, gratuitamente, nelle lingue ufficiali dello Stato membro di rilascio e in inglese. Sarà interoperabile, grazie ad una piattaforma tecnologica predisposta dalla Commissione, che aiuterà gli Stati membri a sviluppare un software che le autorità potranno usare per verificare tutte le firme dei certificati in tutta l’UE.

Sperando, però, che il difficile connubio normativo e tecnico, il testo legislativo da una parte e dall’altra l’infrastruttura informatica che conterrà le informazioni che saranno presentate tramite i nostri oramai indispensabili apparecchi informatici, che la commissione sta costruendo, non finirà per ritardare l’applicazione del regolamento o renderla temporalmente superflua.

Per non parlare del costo dell’infrastruttura digitale. Si mormorano cifre intorno ai quindici/venti milioni di euro, ufficialmente investiti nell’interesse dei nostri cittadini, ma di fatto sottratti alle loro più immediate e vitali esigenze. Ma tanto non siamo in crisi nei palazzi di Bruxelles.

Ci rassicurano sul fatto che lo strumento è pensato come temporaneo. La proposta, infatti, prevede una sospensione dell’efficacia una volta dichiarata la cessazione della pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, con eventuale riattivazione in caso di nuova emergenza sanitaria.

Beh, al di là del fatto che l’OMS non rappresenta una istituzione europea giuridicamente legittimata ad incidere direttamente sulla libera circolazione dei cittadini europei e anche a non voler considerarne le mancanze nella gestione della pandemia, noi vorremmo una data certa, quanto più prossima possibile, anche solo per illuderci che sì, questa pandemia finirà in sei mesi, nove massimo, grazie alle intellighenzia di tutti voi.

I certificati dovrebbero contenere solo i dati personali necessari, informazioni rilevanti riguardanti l’eventuale vaccino, tampone o certificato di guarigione, e un identificativo univoco del certificato. Secondo la Commissione nessun dato personale dei titolari dei certificati entrerà in alcuna banca dati europea, né sarà conservato dallo Stato membro che dovrà effettuare le verifiche limitatamente alla veridicità del certificato, tramite firma digitale, stando le segnalazioni di frodi e vendite illecite di certificati e di test fraudolenti riportate dall’Agenzia europea Europol, né verrà derogato in alcuna misura il Regolamento Generale sulla Protezione di Dati (GDPR). Con buona pace di chi nelle aule parlamentari lotta per la protezione dei dati dei cittadini, gli stessi cittadini che, però, li regalano, talvolta inconsapevolmente, alle società che gestiscono carte sconto o applicazioni tarocche sui social.

Come ribadito nei documenti ufficiali della Commissione, il possesso di un certificato verde digitale, per il cui rilascio abbiamo chiesto non vi sia alcun automatismo, non dovrebbe essere una conditio sine qua non per l’esercizio della libera circolazione, che resta di competenza degli Stati membri.

Ci sarà molto da discutere su dettagli tecnici e noi ci impegneremo a difendere i diritti dei cittadini. La palla è nella metà campo di Bruxelles, ora: l’Ue, dopo aver fallito nella risposta alla pandemia e nella strategia vaccinale, non sprechi altre occasioni.

Nessuna restrizione della libertà e soprattutto nessuna discriminazione né in base al tipo di certificato scelto dal cittadino né tra i cittadini, in base al reddito e alla provenienza geografica.

Noi siamo per la libertà non solo quella di circolazione, ma in tutte le sue forme, manifestazioni ed accezioni nella vita, con l’auspicio che questa sì torni ad essere realmente green.

(L’on. Annalisa Tardino è parlamentare europeo della Lega)