Si scrive Caruso, si legge Schifani. Non è un mistero – per nessuno – che la nomina dell’uomo-ombra alla guida del partito in Sicilia, sia un modo per evitare la diaspora da Forza Italia. Diaspora che sarebbe diventata plastica alla vigilia delle Amministrative, con le discussioni in corso per la ricerca dei candidati e, soprattutto per la composizione delle liste. E siccome il partito ha spostato il suo baricentro verso il presidente della Regione, per Silvio Berlusconi, che in Sicilia continua a coltivare interessi aziendali oltre che politici, era necessario un nuovo imprinting. Avrà pure 86 anni il Cav., ma è meno suonato di come lo si voglia dipingere. Ha gestito il rapporto con Micciché sull’onda emotiva degli affetti, poi ha trovato il modo e le parole per “scaricarlo”. Si è parlato di “questioni locali”, ma c’è dietro un mondo.

Basta, però, tornare indietro al 25 settembre, alle congratulazioni di Micciché che esultava per un presidente di Forza Italia, il primo dopo tanti gesti di generosità; e poi a qualche settimana dopo, alle interviste di fuoco sui giornali, alla contesa sull’assessorato alla Sanità, alla rivelazione degli accordi traditi. Tante bugie miste a tantissimo risentimento che, poco per volta, si sono materializzate all’Assemblea regionale: con la pantomima di Forza Italia 1 e Forza Italia 2, e infine col giochino dello “scippo”. Uno dopo l’altro anche i fedelissimi di Micciché si schieravano col presidente della Regione, altrimenti sarebbe venuto meno il senso di far politica, di ricoprire un seggio, di dare voci ai territori. Micciché ha sparato a salve le ultime cartucce (come quella dell’osservatorio astronomico sulle Madonie, ancora in attesa di autorizzazione, o delle proroghe ai precari Covid), fino a un mesto sabato sera, all’encomio di Berlusconi, all’addio più silenzioso dopo mesi di battaglie tambureggianti.

Resta Caruso. O meglio, resta Schifani. L’uno dirigerà il partito, l’altro la Regione. E il partito. Perché la classe dirigente di Forza Italia ha finito per ricompattarsi attorno al governatore e non al suo spiccia faccende, che per altro ha impiegato buona parte della sua carriera onorevole a gestire incarichi di sottogoverno (all’Amia, alla Sas, all’istituto Vino e Olio). Caruso, un omaccione che infonde fiducia, dovrà rimettere insieme le anime del partito e traghettarle all’appuntamento con le Amministrative. Ma è lo stesso Schifani, qualche settimana fa, ad aver avocato per sé il ruolo di commander chief, il comandante in capo, con l’obbligo morale e politico di tenere compatta la coalizione di fronte ai prossimi appuntamenti e alle prossime, inevitabili frizioni (Catania insegna). Di stemperare i dissidi e parare i colpi bassi. Sarà Schifani a dettare la linea, a costruire le liste, a cancellare dalla Sicilia – se sarà necessario – le orme di Micciché. A far calare l’oblio su trent’anni (comunque la si pensi) di risultati allettanti per le squadre del Cav.

Caruso è fiction, Schifani è reality. Il presidente della Regione dovrà per forza prendersi una pausa dall’Amministrazione. Potrà limitarsi a qualche comparsata, come la visita di ieri a Lampedusa per promettere felpe, scarpe e pediatri ai poveri ospiti del centro d’accoglienza. Ma ci sarà sempre meno tempo, con un partito che grava sulle sue spalle, per occuparsi di conti, di sprechi, della sanità che affonda. Insomma, della Regione che l’aveva ricondotto alla politica attiva dopo anni trascorsi ad occuparsi di diplomazia e di rappresentanza (nelle vesti di presidente del Senato). Schifani non nasce con la passione dell’amministratore, non è un fulgido esempio di operatività. In questo avvio di legislatura s’è intestato alcune battaglie di principio senza concluderne nessuna: il caro voli, il rapporto coi privati della sanità (culminato in uno sciopero senza precedenti), i termovalorizzatori. Adesso avrà sempre meno tempo per chiudere le vertenze ed evitare il tracollo dell’isola e dei suoi abitanti.

Sarà proiettato sull’altra missione: consolidare la leadership nel partito, e indirizzare la flotta di Forza Italia – che conta su 12 deputati all’Ars – verso un asset strategico coi patrioti di Fratelli d’Italia, suo main sponsor nella scalata a Palazzo d’Orleans. Gli toccherà fare come Musumeci, che poco per volta attirò importanti esponenti azzurri (da Falcone ad Armao) nella sua ragnatela, fino a renderli un tutt’uno col gruppo della Meloni. Cioè il partito del presidente. Ci vorrà qualche mese di lavorio, viste le tensioni recenti sui precari Covid, ma si può fare. Inoltre, volendo ampliare la prospettiva, Schifani – svanito Miccichè – dovrà trovarsi un nemico nuovo, uno che, al solo pensiero della contrapposizione, gli consenta di brillare di più. Quell’uno potrebbe essere Gaetano Galvagno, fresco presidente dell’Ars. Non solo perché è la prima carica del parlamento, e Schifani non accetta che qualcuno venga prima di lui. Ma anche perché condividono la provenienza e il ‘padrino’: sono entrambe creazioni, e proiezioni, di Ignazio La Russa.

L’uno come sovrastante di Fratelli d’Italia, e surrogato di Musumeci, piazzato a capo della Regione per vendicarsi di Micciché; l’altro come uomo di partito, giovane e intelligente, legittimato dal voto dell’aula (che ha pescato oltre il recinto delle destre). La nuova diarchia potrebbe diventare scontro (sterile ma divertente). Potrebbe togliere tempo alla Sicilia, che di tempo se n’è già vista sottrarre abbastanza. I conti che non tornano, l’emergenza rifiuti, la sanità malata, i carrozzoni succhiasoldi. Per governare c’è sempre tempo. Prima viene l’esercizio ludico della politica. O no?