Sono circa 400 i Comuni italiani che hanno avviato le operazioni di dissesto o di riequilibrio finanziario, secondo quanto previsto dal Testo unico degli Enti locali. In Sicilia, per entrambe le fattispecie, se ne contano ottantasei: 29, come nel caso di Catania, sono già in default; 57, come Messina (ma anche Milazzo e Cefalù), rischiano invece il crac. I comuni con l’acqua alla gola, quelli che non riescono a risolvere da soli la crisi debitoria, sono tornati al centro del dibattito politico in corso a Roma. Sono entrati a pieno titolo nella maretta fra partiti di governo, che un giorno sì e l’altro pure stanno mettendo a rischio la tenuta dell’esecutivo. Uno dei punti su cui rischia di incagliarsi una volta per tutte il contratto di governo fra Lega e Cinque Stelle è il “decreto crescita”, al cui interno potrebbe trovare spazio – ma non è detto – una norma ad hoc per la Capitale, detta appunto “salva Roma”. Con cui si permetterebbe alla giunta Raggi di ridurre i problemi finanziari – il comune capitolino, negli ultimi anni, ha maturato un debito pari a 12 miliardi di euro – e agli altri di mantenere uno status fastidioso quanto insopportabile: quello di comuni di serie B, come ha ricordato Matteo Salvini in un tweet.

Mentre i Cinque Stelle vorrebbero tamponare, hic et nunc, le perdite di Roma, la Lega, che nei confronti della Raggi non ha mai nascosto un certo livore, vorrebbe estendere i benefici della norma a tutti i comuni in difficoltà con un provvedimento ad hoc. Una prova muscolare che, ovviamente, i principali comuni siciliani sostengono. Come dargli torto. Ad esempio, il sindaco di Catania, Salvo Pogliese, non aspetta altro. Anche sulla base di una ritrovata sintonia con il leader della Lega dopo l’abbandono di Forza Italia, sancita la settimana scorsa (ma su un altro fronte, le Europee).

Alla dichiarazione del dissesto Catania è giunta lo scorso 13 dicembre, dopo sei anni pieni d’incertezze. Il Consiglio comunale si è pronunciato prima di Natale dopo che a pronunciarsi, per tutti, era stata la Corte dei Conti che aveva rigettato il ricorso contro la delibera del 4 maggio 2018 con cui la sezione di controllo della Sicilia aveva rilevato un buco di 1,6 miliardi di euro ritenuto ingestibile con gli strumenti ordinari. “La mancanza di liquidità – aveva rilevato Marco Boncompagni, il procuratore generale delle sezioni riunite della Corte dei Conti di Roma – è strettamente collegata alla bassissima capacità di riscossione delle proprie entrate, con particolare riferimento a quelle del recupero dell’evasione tributaria, tramutatasi poi in residui attivi cancellati perché con anzianità superiore ai 5 anni”.

Nelle motivazioni espresse dall’organo di controllo il 7 novembre, alla vigilia della ratifica del Consiglio comunale etneo, si leggeva che “la situazione finanziaria del Comune non avrebbe consentito una diversa soluzione, poiché la stessa si è talmente aggravata da non rendere possibile il risanamento” stante che “gli esercizi successivi all’adozione del piano di riequilibrio sono stati caratterizzati da un peggioramento del disavanzo di amministrazione, documentato dai rendiconti approvati”. Il Comune, alla pari di ciò che sta avvenendo in questo momento a Messina, aveva tentato un piano di riequilibrio per evitare una resa dei conti così amara. Ma durante quel lasso di tempo le cose erano addirittura peggiorate, a causa della pessima abitudine di evadere le tasse (in primis) e dell’incapacità cronica del sistema di riscossione di operare al meglio. Così procedere al dissesto è stata la conseguenza più logica. E inevitabile.

Il sindaco Pogliese, che si è trovato questa matassa da sbrogliare sin dai giorni successivi alla sua elezione (le Amministrative, a Catania, si sono tenute nel giugno 2018), aveva già chiesto una mano a Salvini, ottenendo in cambio un impegno purché si facesse “tesoro degli errori fatti”. Perché “già in passato – commentava il vice-presidente del Consiglio – il governo di cui facevo parte aveva erogato parecchi soldi per salvare Catania dal dissesto”. Senza riuscirci. Oggi occorre rinnovare l’impegno. Quando è venuta fuori la storia del “Salva Roma”, Salvini s’è subito ricordato di Catania (e Alessandria) come città a un passo dal tracollo. Non può essere un caso. Anche se Pogliese, nonostante la dichiarazione del dissesto, la difficoltà a pagare i dipendenti, l’aumento obbligatorio delle imposte, negli ultimi giorni ha avuto a che fare con un’altra complicazione: l’anticipazione di cassa è al massimo della scopertura (184 milioni di euro).  Il mancato azzeramento dei fondi di tesoreria, come imposto da una legge nel 2017, impedisce di avere la liquidità necessaria per andare avanti. Per questo, assieme al vicesindaco Bonaccorsi, ha riunito la deputazione catanese per chiedere, ognuno per conto proprio, di fare la propria parte e premere sia sul governo regionale che su quello nazionale, per una modifica legislativa che consenta anche ai Comuni in dissesto di “liberarsi” dalle difficoltà di Tesoreria. O a giugno le casse potrebbero davvero trovarsi vuote, con la conseguente impossibilità di pagare stipendi e servizi.

Un’iniziativa parlamentare è in corso anche in assemblea regionale, dove l’assessore Falcone si è fatto promotore di un disegno di legge, inserito nel collegato alla Finanziaria, che prevede la possibilità di ottenere – da un emendamento che regolamenta la ripartizione delle cifre fra i comuni in difficoltà – una ventina di milioni come anticipazione di cassa, che potrebbero diventare 40 ed essere restituiti in un quinquennio. Tra il niente e le briciole, meglio le briciole.

Va un po’ meglio a Messina, dove il sindaco Cateno De Luca ha comunque le sue belle grane. Da sindaco metropolitano ha mandato in ferie forzate i dipendenti dell’ex provincia e sta conducendo una battaglia a tutti i livelli (specie col governo centrale) per trovare una soluzione che impedisca agli enti intermedi di colare a picco. Tra le proposte c’è anche quella di boicottare le elezioni di secondo grado in programma il 30 giugno. Ma anche a palazzo Zanca, sede del Comune, la battaglia si è molto complicata. Lo scorso novembre, infatti, il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità un piano di riequilibrio di oltre mezzo miliardo di euro per mettere al riparo la città di Messina dal default. Un tentativo già fatto dalla precedente giunta guidata da Renato Accorinti (l’ultima bocciatura era arrivata nove mesi prima), che adesso si ripete. In generale è la quinta versione negli ultimi cinque anni. Stavolta, forse, con qualche spiraglio in più.

Il “Salva Messina” prevede il riequilibrio dei conti in vent’anni – anziché in dieci – e passerà al vaglio del Ministero dell’Economia. Nei mesi di preparazione, De Luca ha provveduto ad aggiornare la massa debitoria, tenendo conto dell’evoluzione del contenzioso e inserendo, in sede di riformulazione del piano, anche i debiti quantificati sino alla data 31 ottobre 2018. Molti dei quali derivano, ad esempio, dalle aziende partecipate (per oltre 130 milioni di euro). Ovvio che in questo percorso, e in attesa del responso romano, si debbano portare avanti tutta una serie di questioni: prime, fra tutte, le transazioni con i creditori del Comune, che inizialmente dovevano terminare entro dicembre, poi entro il 28 febbraio, ma i termini adesso sono slittati a fine mese. Il Comune di Messina, cioè, deve meritarsi sul campo la possibilità di scongiurare il crac, con una serie di iniziative volte a confermare quelli che al momento restano soltanto dei propositi.

In Sicilia, anche se la storia merita un capitolo a parte, è tuttora in atto il contenzioso sulle ex province, che nessun provvedimento salvifico da Roma sembra poter mettere al riparo da spiacevoli sorprese. Il prelievo forzoso dello Stato, le restituzioni che non rispettano i canoni di perequazione rispetto alle altre province italiane, il ricorso a 100 milioni di euro (fin qui solo annunciato) dal fondo degli investimenti per permettere alle ex province di chiudere i bilanci, sono facce della stessa medaglia e sintomo di depressione. Il Libero Consorzio di Siracusa è già affondato tra i debiti, tutte gli altri (ad eccezione di Agrigento e Trapani) rischiano la medesima fine. Sembra una storia già scritta, ma nessuno fa niente per cambiare il finale.