Guanti, mascherina, continui lavaggi e ogni tipo di cautela igienica. Distanza compresa.

Tutti come Casimiro Piccolo di Calanovella, barone siciliano, pittore di magici acquerelli, fotografo, fratello del poeta Lucio, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e molto altro che se solo oggi potesse vederci, sorriderebbe e si prenderebbe burla di noi. E magari orchestrando uno dei suoi proverbiali scherzi.

Sì, perché Casimiro, insieme alla madre Teresa Tasca e ai fratelli, dal 1932 visse praticamente in isolamento rispetto al resto del mondo. I quattro abbandonarono la mondanità palermitana ritirandosi nelle colline di Capo d’Orlando, laddove sorgeva e sorge Villa Piccolo, dimora di famiglia di tardo Ottocento, ma soprattutto luogo isolato, che guarda dall’alto le Eolie e che s’immerge nei boschi un tempo sacri a Dioniso.

Una reclusione volontaria scelsero i quattro, uscendo poco e niente dalla villa e coltivando all’interno di quel luogo le nobili arti della pittura, della fotografia, della poesia e della botanica.

Fra loro, il più isolato di tutti era proprio Casimiro: il barone di Calanovella infatti indossava sempre un paio di guanti bianchi e guai a stringergli la mano.

Per sedersi a colazione scostava addirittura con un’abile mossa del piede la sedia e con destrezza riusciva a conquistare il posto a tavola. L’isolamento in lui diventava fobia, se non distacco totale dagli umani, o meglio dai contemporanei. Egli e i suoi fratelli, infatti, da quel punto di osservazione che è Villa Piccolo scrutavano il mondo, interpretandone a modo loro i cambiamenti.

Ma la dimensione privilegiata era l’Oltre.

Casimiro non permetteva a nessuno di entrare nella propria stanza che era anche il suo studio dove dipingeva e sviluppava le fotografie che scattava a uomini, piante, animali e a scorci di una Sicilia profonda. Un giorno una malcapitata donna delle pulizie riordinò la sua stanza e vi furono scenate.

L’isolamento, però, non era chiusura, né per lui né per Lucio e neanche per la sorella Agata Giovanna, che curava le piante che ancora oggi impreziosiscono il giardino della villa. Per loro l’isolamento era come una possibilità di incontrare una realtà più grande, uno spazio cosmico.

E infatti nelle calde serate siciliane, Casimiro passeggiava nei giardini davanti casa dialogando con ipotetici o reali spiriti elementali, fate, elfi, creature di dimensioni altre che incontrava tra i viali, con cui invece i rapporti erano costanti e la familiarità diventava complicità. Un dialogo a un altro livello, che ispirò tutta la sua arte. Così come i versi bellissimi e immortali del fratello Lucio Piccolo, che guardano a un orizzonte molto più ampio delle mura domestiche entro cui furono concepiti.

Ed è forse anche per questo che i Piccolo di Calanovella, e Casimiro fra tutti, ci insegnano a distanza di tanti anni che un paio di guanti e l’apparente distanza dagli altri, non sempre vuol dire chiusura, ma può rappresentare anche un’occasione per tornare a noi stessi in una proiezione più ampia, assoluta forse. Ed ecco che la burla, lo scherzo, che Casimiro riservava non di rado ai suoi ospiti, diventano oggi paradigma del gioco della vita, dell’occasione di “appartarsi” per espandersi oltre. Un gioco che può voler dire tanto, specie in tempi virulenti come questi. E non solo a causa del coronavirus.

Tutti come lui, dunque.

C’è un tempo, infatti, come quello odierno, in cui restare a casa non è una facoltà ma un obbligo.

C’è un tempo, come appunto quello delle nostre giornate, in cui portare i guanti diviene una necessità per molti. Dal Trentino a Lampedusa cambiano le abitudini di tutti. E tutti ci ritroviamo a essere Casimiro.

(tratto da La Civiltà delle macchine, rivista mensile della Fondazione Leonardo)