Catania, dove ha diluviato per giorni, in realtà è una città in fiamme. Disarcionata dal mondo e dalla vita per delle contraddizioni ataviche che si porta dietro. Anche se per alcuni è l’ineluttabilità del destino: “In 48 ore – ha scritto sui social il sindaco Salvo Pogliese – è caduta la quantità di pioggia che cade in media in un anno intero”. “Gli interventi ‘ordinari’ – gli fa eco Musumeci, rassegnato – nulla possono se in cinque-sei ore si registra la stessa quantità di pioggia che cade, di solito, in sei mesi. Senza interventi straordinari, che solo l’Unione Europea può mettere in campo, ci ritroveremo periodicamente a contare danni e, Dio non lo voglia, altre vittime”. Catania, suo malgrado, è diventata per un paio di giorni l’ombelico del mondo. La città sciagurata che sui social richiama cuoricini e messaggi di solidarietà e affetto da parte di chi c’è stato in vacanza, o dagli abitanti delle città limitrofe, sfuggite per caso alla stessa apocalisse.

A fare la differenza, in fin dei conti, è il numero delle vittime (un paio – ma manca ancora una signora all’appello – fra Scordia e Gravina): è quello che per un attimo risveglia le coscienze. Che conduce oltre il classico ‘prima o poi ci scappa il morto’. Puntando le luci di scena sui problemi irrisolti, sulla prevenzione mancata, sulle responsabilità mai esplorate. Dura finché è utile. Hanno corso lo stesso rischio a Palermo, coi sottopassi allagati di viale Regione Siciliana: avete visto come hanno risolto, no? Adesso, però, c’è di mezzo Catania. Una città frastornata da un clamore per nulla inatteso. Turbata da un anno che peggio non poteva andare.

Difficilmente le sventure arrivano tutte insieme. A Catania è successo. L’ineluttabilità del fato è l’alibi, però, di chi non riesce a trovare soluzioni. Anche sotto il profilo del dissesto idrogeologico. La politica regionale si è appena discolpata spiegando, che “dal 2018 ad oggi abbiamo finanziato lavori fino all’ultimo centesimo, per oltre 400 milioni di euro: siamo la prima Regione in Italia per somme erogate – ha ribadito Musumeci -. L’azione di difesa del territorio siciliano è stata condotta in modo capillare”. Da anni, però, Catania si interroga sui lavori per la realizzazione del canale di gronda. Il giornale online Sudpress ha riportato a galla un comunicato stampa del 2015, apparso sul sito del Comune, quando imperava Enzo Bianco: il governo aveva stanziato 58 milioni di euro (di cui 10 destinati all’hinterland) per la riduzione del rischio idrogeologico. Il completamento del collettore B, noto come canale di gronda ovest, era “necessario a captare le notevoli portate pluviali della fascia pedemontana ovest che insiste sulla città. Un intervento che eviterà pericolosi allagamenti nella zona ovest di Catania fino a Misterbianco e Motta Sant’Anastasia”. Che fine hanno fatto quei soldi?

Anche nel 2020 l’Amministrazione Pogliese confermava che la gara per il depuratore – propedeutico al completamento del canale di gronda – era in corso, annunciando al contempo un finanziamento da 393 milioni per ridisegnare la rete fognaria. Ma alle prime piogge, che già nel 2015 e nel 2018 avevano fatto tenere il peggio, il risultato è un altro: tombini saltati, strade allagate simili a torrenti, automobilisti prigionieri nelle macchine in panne, attività commerciali chiuse e in ginocchio, abitazioni allagate. In una parola, disperazione. O meglio: disperazioni che si sommano.

Nell’anno nero della città etnea incidono altre questioni. Alcune più importanti di altre. Catania, ad esempio, è una delle province con minor capacità di reazione agli esiti della pandemia. Quella che continua a riempire i bollettini dei “positivi” giornalieri della Protezione civile, e che resta al di sopra della soglia limite d’incidenza di 50 casi per centomila abitanti. Non è l’unica nel suo genere, per carità, ma fin dall’avvento del Coronavirus – lo dicono i numeri – ha dimostrato un approccio inadeguato, forse sintomo di un deficit culturale, verso le attività di prevenzione (alcuni video fanno ancora sfoggio di sé sui social). I morti sono fioccati: secondo un rapporto appena pubblicato dal Ministero della Salute e dal Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, ad agosto la variazione della mortalità rispetto alle attese è del 50% in più.

Bruno Cacopardo, primario di Malattie infettive all’ospedale Garibaldi, si è lasciato andare a un duro sfogo su Facebook: “Inseguo i dati del pessimo andamento della epidemia a Catania: aderire o accodarci alle regole di altri non è nel nostro costume: noi siamo protagonisti, mai comparse. Ed eccoci qui (infatti) a primeggiare, con i numeri sopra i cento, con i reparti che pian pianino ricominciano a riempirsi e quell’implacabile timore velenoso di non farcela a venirne fuori. Inutile scomodare virologi e biologi molecolari per capirne le ragioni – aggiunge amaro -. Sarebbe meglio chiedere ad un sociologo, uno psichiatra o ad un esperto di etologia animale (alla Mainardi). Oppure a un religioso: non manchi una prece per una città che muore. Meglio un esorcista, anzi”. Ma non è tutto: “Godiamo (molto) a stare nelle retrovie, sempre un passo indietro. Primi degli ultimi. Siamo brutti, sporchi e cattivi e molto fieri di esserlo. Disponibili ad annaspare nell’immondizia e nella epidemia pur di non rinunciare a feste e fasti, aperitivi e cene in compagnia. Ci ingozziamo e brindiamo con le bollicine al nostro disastro. Suoniamo le cetre mentre la città (puzzolenta e greve) brucia di fuochi fatui”.

Catania è la città che più di tutte, a settembre, ha risentito della progressiva chiusura della discarica di Lentini: la monnezza per settimane è rimasta accatastata sui marciapiedi. La prima ad accorrere, manco a dirlo, è stata la giornalista Selvaggia Lucarelli, reduce da un’estate sulla cresta dell’onda per aver evidenziato la piaga delle discariche abusive. Poi ci sono i boati e i lapilli dell’Etna, che fino a pochi giorni fa ha ricoperto di cenere un tratto d’autostrada sull’A18. E’ avvenuto, con esiti più catastrofici, nelle scorse settimane, con interi paesi del circondario sepolti “neri”. E le continue lagne di Musumeci, che è riuscito a strappare un intervento da 5 milioni da parte del dipartimento nazionale di Protezione civile, mentre non è (ancora) riuscito a sfondare la cortina di ferro rappresentata dall’Unione Europea.

Ma il problema dei rifiuti e dei lapilli è poca roba in confronto a quello dell’università. Un ateneo storico, violato nell’immagine, nell’onorabilità e nel prestigio da una vicenda di presunti concorsi truccati. Una macchia indelebile, in attesa che si celebri il processo. I processi, in verità. Nel primo troncone dell’inchiesta il Gup ha rinviato a giudizio gli ex rettori Francesco Basile e Giacomo Pignataro, più sette docenti. I reati contestati, a vario titolo, sono l’abuso d’ufficio e il falso: per due di loro, inoltre, la corruzione per atti contrari ai propri doveri. Prima udienza il prossimo 10 maggio di fronte alla terza sezione del tribunale. Nel secondo troncone, invece, ben 45 persone sono state rinviate a giudizio per turbata libertà del contraente. Tra gli imputati eccellenti compaiono l’ex procuratore Vincenzo D’Agata e l’ex sindaco Enzo Bianco, inguaiato dall’aiutino – così si legge negli atti della Procura – che avrebbe tentato di fornire sul suo assessore, nonché professore universitario Orazio Licandro, per restare a Catania.

Bianco, che come Orlando a Palermo, ha segnato un’intera epoca di questa città, è anche il sindaco che si porta dietro il fardello del dissesto economico, certificato tre anni fa dal suo successo Salvo Pogliese. La Corte dei Conti, con una sentenza dell’aprile scorso, lo ha condannato a risarcire 24.339 euro al Comune nell’ambito delle indagini sul default. E’ stata annullata però l’interdittiva legale di 10 anni, stabilita in precedenza dal giudice monocratico. Assieme a Bianco sono stati condannati gli assessori che lo avevano accompagnato nell’ultima esperienza da primo cittadino, eppure, secondo i protagonisti della vicenda, “il Giudice ha riconosciuto che il dissesto non è addebitabile alla nostra amministrazione ma nasce da un insieme di concause tra cui le pregresse difficoltà finanziarie, che emergevano anche grazie alla nostra azione di trasparenza, cui non si è riusciti a porre rimedio. L’accusa non si riferiva a danno erariale, ma solo al fatto che non abbiamo dichiarato il dissesto”.

Il sindaco e i suoi assessori, in sede penale, dovranno ancora rispondere di falso ideologico. Ma a proposito di processi che investono i primi cittadini, anche Salvo Pogliese non è al riparo da possibili sorprese. L’inchiesta sulle spese pazze all’Ars – quando era capogruppo del PdL – lo ha toccato nella carne viva. La condanna a 4 anni e 3 mesi in primo grado, infatti, fece scattare la sospensione di 18 mesi da primo cittadino di Catania per effetto della Legge Severino (che il referendum sulla giustizia proposto da Lega e Radicali vorrebbe cancellare). Pogliese, da luglio 2020, è stato sospeso dalla carica per quattro mesi. Salvo essere “riammesso” in seguito al ricorso presentato dai suoi avvocati – contenente rilievi costituzionali – dal tribunale di Catania. La palla, adesso, è in mano ai giudici della Corte Costituzionale, che dovranno pronunciarsi. Se bocceranno il ricorso, il sindaco rischia un’altra sospensione. Sarebbe l’ennesimo colpo inferto a una città in declino, ma anche a un politico emergente come Pogliese. Questa vicenda giudiziaria ha impantanato il tentativo di scalare dall’interno la politica regionale: era un nome dei più spendibili per il dopo Musumeci. Non lo è più.

C’è un’altra vicenda che inquieta Catania, e stavolta riguarda il mondo della cultura. O meglio, l’esito di un compromesso politico che sta ritardando la nomina del Consiglio d’Amministrazione del Teatro Stabile. Un ente che grazie a una governance attenta, negli ultimi quattro anni, è riuscito a recuperare un passivo enorme, che lo aveva portato a un passo dal baratro e dal fallimento. Alla scadenza naturale del mandato il Cda è decaduto, e pur esistendo l’opportunità di una conferma per il prossimo quadriennio – dei cinque membri, due vengono decisi dalla Regione e due dal Comune – nessuno l’ha ancora esercitata. Questioni di poltrone e di equilibrismi, che però rischiano di creare scompensi su un percorso ben avviato. Le prime due assemblee dei soci sono andate deserte. Una situazione denunciata dal segretario regionale del Pd, Anthony Barbagallo: “Serve un nuovo Cda di spessore per l’istituzione culturale più prestigiosa del Mezzogiorno. Siamo sgomenti di fronte a questo balletto del centrodestra, che non può considerare lo Stabile catanese come un poltronificio”. Ma non è solo politica, e non è solo centrodestra. Tanto meno, è sfiga e basta. Forse, per citare Cacopardo, è che “godiamo a essere primi degli ultimi”.