Gli assessori e qualche capogruppo (come quello di Forza Italia all’Ars) passano il tempo a minimizzare: “Nessun voto contro il governo, si tratta di iniziative parlamentari”. Ma il dato di fatto è che, dal ritorno in aula, la compagine diretta da Renato Schifani non è riuscita a strappare neppure uno strapuntino: persino la legge sulle politiche abitative, una sanatoria in piena regola, è stata impallinata dal voto segreto e da parecchi franchi tiratori (almeno otto). A Sala d’Ercole prevalgono i mal di pancia. Le manifestazioni che ne conseguono metterebbero in imbarazzo chiunque. Ma anziché prendere il toro per le corna, ricercando i motivi di una coesione evaporata con le provinciali, i leader fanno finta di niente.
Il dato reale è che a mandare in crisi il centrodestra, ancor prima delle elezioni di secondo livello (le divisioni della campagna elettorale ne rappresentano un sintomo evidente), è l’allocazione del potere. Ossia, la scelta di uomini e donne in cui gli alleati di Schifani, o presunti tali, non si riconoscono. A cominciare da una frangia della stessa Forza Italia, che all’indomani della sconfitta a Enna è esplosa contro l’assenza di regia da parte della segreteria regionale. Sono stati Falcone e Mulè a sollevare le obiezioni contro il coordinatore regionale del partito, Marcello Caruso. Che di fatto non è un uomo di partito: è stato messo lì, quando c’era Berlusconi in vita, per togliere lo scettro del potere dalle mani di Micciché, ch’era il primo degli oppositori interni. Ma a Caruso – che è anche capo della segreteria tecnica del governatore – nessuno riconosce le abilità di federatore richieste dalla situazione.
Di fatto non ha fiatato quando Schifani ha messo a capo degli assessorati chiave altri due tecnici (ci torneremo). Né è riuscito a garantire gli equilibri fra le anime del centrodestra ogni qual volta il tavolo regionale s’è riunito per parlare di programmi (pochi), di nomine (tante) e di strategie elettorali. Ne è prova la performance dell’ultima campagna elettorale: una testimonianza di tutti contro tutti che ha portato a due sconfitte plateali (ma a Trapani almeno un pezzo di FI s’è salvato, appoggiando un civico di sinistra). Caruso, d’altronde, non è stato capace di gestire il dopo Micciché: anziché tentare la strada della conciliazione, specie con i “ribelli”, ha preferito procedere con una campagna acquisti che oggi mostra tutti i suoi limiti. Bocciato.
Ma, come anticipato, una delle scelte più contestate, è stato il silenzio complice di fronte alla nomina dei due tecnici di governo di area forzista. Lo è – senz’altro – Alessandro Dagnino, assessore all’Economia. Lo è molto meno Daniela Faraoni, “contesa” dal leghista Sammartino. Le due caselle, lasciate vacanti da Marco Falcone (dopo le Europee) e da Giovanna Volo (scelta anch’ella da Schifani) sono state assegnate dal governatore non a uomini o donne di partito, bensì a un avvocato e ad una burocrate, senza alcuna consultazione interna. Caruso non ha mosso un dito, non avrebbe potuto. Ma l’ex Italia Viva, nella veste di coordinatore forzista, dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti e non soltanto quelli di Schifani. C’è un momento per fare il segretario di Forza Italia e un altro per fare quello personale del governatore. Ha finito per mischiare le cose.
Le scelte del presidente della Regione hanno delegittimato una classe politica che si sentiva pronta, che credeva di poter “approfittare” della presenza di un proprio esponente a Palazzo d’Orleans e di 14 rappresentanti parlamentari. E invece niente. La Faraoni, per altro, è finita nel mirino del parlamentare nazionale Tommaso Calderone (vicino a Falcone) a causa delle risposte – sempre vaghe e carenti – sul futuro della sanità. Non solo. La sua nomina ha generato la reazione a catena di Fratelli d’Italia, che vorrebbe rivalersi della scelta di Schifani piazzando un proprio uomo alla guida del dipartimento Pianificazione strategica (Mario La Rocca). Se così non fosse, pretende almeno la guida dell’ASP di Palermo, che infatti rimane vacante.
Nel frattempo i patrioti (Sbardella è sceso ufficialmente in campo con accuse mirate) si esercitano nel tiro al bersaglio, lasciando che i pochi provvedimenti portati in aula dal governo finiscano in qualche modo impallinati: è successo con la proposta di Dagnino di triplicare gli stipendi ai manager delle partecipate, ed è capitato di nuovo con il ddl sulle Politiche abitative. Le proposte che arrivano allo striscione del traguardo vengono mortificate dal voto segreto, molte altre rimangono a lungo nel limbo delle commissioni (come la riforma degli enti locali). Non ci vuole un genio per capire di chi sia la regia.
Un altro tecnico che ha inficiato il rapporto di fiducia con un pezzo di Forza Italia, ma anche con alcuni degli alleati più fedeli, è Caterina Chinnici. La sua promozione a Strasburgo, coi voti di Lombardo e di Cuffaro, ha lasciato credere a Mpa e Democrazia Cristiana che nel breve termine avrebbero attinto a piene mani dalla bontà d’animo del governatore. Ma non è così: Lombardo, che pure si era federato a FI a livello nazionale, continua a reclamare un secondo assessore in giunta (facendo asse con FdI); Cuffaro flirta con la Lega (anche se smentisce accordi ufficiali) perché ha capito che non esiste altra soluzione di apparentamento dopo il rifiuto di Forza Italia alle Europee. E poi c’è Tamajo, che fa gara a sé: è stato lui, Mister Preferenze, a cedere il seggio alla Chinnici. Ma da quel momento, a causa di qualche pretesa di troppo, è finito nel cerchio degli eretici, perdendo posizioni su posizioni. Rimane nel partito, ma gli è stato sottratto il capo dipartimento delle Attività produttive e persino un assessore d’area a Palermo (Rosi Pennino).
Quelli che speravano di contare un po’ di più, sono rimasti delusi. La tecnica del feudatario che ha occhi solo per i propri vassalli, non ha pagato: basta mettere piede all’Ars, durante una votazione, per rendersene conto.