Scommettiamo che nel giro di qualche giorno gli incendi che hanno ferito a morte la Sicilia, provocando tre vittime e tante lacrime, saranno un ricordo come gli altri? Ieri la commissione Affari istituzionali dell’Ars s’è riunita per parlare della riforma delle ex province, anche se l’assenza dei deputati di Fratelli d’Italia ha fatto cadere il numero legale e vanificato tutto. Ma se all’indomani di un evento catastrofico non si ha neppure l’accortezza di modificare un ordine del giorno, invocando a gran voce una seduta d’aula per pretendere spiegazioni sulle ultime settimane d’inferno (a Sala d’Ercole s’è parlato del Documento di Economia e Finanza), davvero vuol dire che i politici abitano in una dimensione parallela.

Il governo, questo governo, non è stato in grado: a) di prevenire; b) di affrontare; c) di risolvere la crisi. Sul fronte delle fiamme, ma anche su quello dei trasporti (a determinare l’incendio di Fontanarossa sarebbe stato il cavo di una stampante: roba da impazzire). Schifani è fermo al sopralluogo di Catania e alla telefonata di Mattarella; ieri, dopo aver trascorso “quaranta secondi in aula”, ha fatto perdere le proprie tracce. Qualcuno ha provveduto – per lui – alla prima quantificazione dei danni provocati dai roghi (60 milioni), ma non esiste una prospettiva, di medio o lungo termine, per contenere gli effetti delle prossime calamità (giacché “prevenire” è un parolone). La richiesta dello stato d’emergenza al governo nazionale è il parafulmine per qualsiasi responsabilità, presente o passata, da parte delle amministrazioni che non sanno pianificare, o sono troppo impegnate a fare altro: le nomine, le mance, i rimpasti.

Palazzo d’Orleans, si è appreso ieri, è rimasto per 18 ore senza corrente elettrica. Se non fosse stato per qualche lancio d’agenzia, nessuno l’aveva notato. Ad accorgersi della distruzione provocata dal fuoco sono stati, invece, gli agricoltori: sono già partite richieste di risarcimento per 200 milioni. Sarà una conta infinita, finché verranno sganciati i primi soldini da parte dello Stato. Anche l’assessore al Turismo, Elvira Amata, ha iniziato la verifica dei danni subiti dalle imprese turistiche. Ma questo è il contributo minimo richiesto alle istituzioni. Non è governare i problemi, bensì muoversi a tentoni: nessuna sorpresa. E’ accaduto con Crocetta e con Musumeci, sta accadendo con Schifani. Che peraltro può contare su un solo e fidato consigliere – il commissario di Forza Italia, Marcello Caruso – e invece non si avvale, forse perché nessuno è disposto a concederglieli, dei consigli di alcune autorevoli figure della sua (pseudo)maggioranza. Di quelli che ben conoscono la differenza tra governare, perché l’hanno già fatto; e osservare i cantieri, come un qualunque umarell.

Stiamo parlando di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, figure ingombranti ma molto silenti quando c’è da mettere le mani in pasta (che temano un’ondata di rancore?); e dello stesso Totò Cardinale, ex ministro delle Comunicazioni nel governo D’Alema, e influente padre nobile che all’ultimo giro ha ospitato Schifani nella ridente Mussomeli per lanciare la sua campagna elettorale. Ecco: queste tre figure, certamente di spicco, certamente scaltre e preparate, potrebbero spiegare a Schifani che fare il capo del governo non significa soltanto tagliare nastri o lanciare appelli nel vuoto alle compagnie aeree; né compilare quotidianamente la lista dei buoni o dei cattivi; o riequilibrare gli umori della coalizione con prebende e ricompense d’ogni tipo. A volte bisognerebbe elevare il livello della propria serietà e dimostrare se si è capaci e a fare cosa. Perché la Sicilia è il riflesso dello stato d’animo (attualmente pessimo) di cinque milioni di siciliani, e non è soltanto l’esito di un puzzle per tenere insieme una maggioranza remissiva e raccogliticcia come l’attuale.

Gli altri non lo aiutano. Forza Italia è sparita dopo che Caruso, per interposta persona, ha ottenuto la plancia di comando; Fratelli d’Italia ha dimostrato più volte la sua asprezza (vedi Urso, Musumeci, Galvagno, Messina) nei confronti del governatore e probabilmente non vede l’ora che questa pantomima finisca per candidare un proprio uomo, stavolta originale, alla presidenza; la Lega è un soffice triclinio su cui poggiare le membra stanche a fine giornate (lo scambio di benevolenza con Salvini è assai sospetto). Restano i tre ignavi: Cuffaro, molto preso dal progetto della Democrazia Cristiana, che di rado mette il becco nelle criticità di governo, se non per esaltare il lavoro dei sue due assessori; Lombardo, interprete del pensiero autonomista, sempre un po’ defilato rispetto a quanto accade a Palermo (forse perché la stima del presidente è quella che è); e infine Cardinale, il cui avvicinamento – non è un mistero – ambiva a un risultato sul medio termine: la candidatura della figlia alle prossime Europee, nel 2024. Dall’ingresso della Chinnici in FI, ha capito che lo spazio s’è ristretto: e allora, cavolacci suoi.

Di Schifani, ça va sans dire. Che poi, per quanto lo riguarda, non è uno abituato a delegare granché. L’incendio lambisce il parco di Segesta? Parla e spiega Schifani. Il bollo auto fa segnare nuovi introiti? Parla ed esulta Schifani. Al Castello Utveggio si inceppano i lavori? Parla e s’incazza Schifani. Non esiste altro Dio. Ma per amarlo bisogna essere agnostici, o al massimo un po’ ignavi. O perché no, furbi. Il prossimo giro di giostra – non parliamo di rimpasto ma di elezioni – potrebbe arrivare non troppo tardi. E a quel punto la coalizione, coi soliti noti a fare da collante, nominerà un nuovo ‘titolare’. Questo ha sempre avuto le fattezze del supplente (infatti anche con Musumeci è finita male).