Anche in questa occasione Nino Di Matteo, pm della Trattativa e attuale consigliere del Csm, ha accarezzato il sogno. A proporre il nome del magistrato a Montecitorio, per l’elezione del presidente della Repubblica, sono stati gli ex grillini de ‘L’alternativa’, un gruppetto di deputati e senatori fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle. Nell’ultima votazione, che ha riportato al Quirinale Sergio Mattarella, il pm palermitano si è fermato a 37 schede, chiudendo sul podio, alle spalle dell’ex magistrato Carlo Nordio. Ma anche nei giorni scorsi il nome di Di Matteo è rimasto a lungo in ballo: nella quarta votazione, addirittura, è riuscito a strappare 56 preferenze, sempre alle spalle di Mattarella. Una dimostrazione di affetto che non gli è sfuggita: “Da uomo delle istituzioni – ha detto all’Adnkronos – mi sento onorato per i voti che in questi giorni sono stati espressi in mio favore. Li considero un importante attestato di stima per me e per altri che continuano a servire il Paese trovando nella Costituzione il punto di riferimento più alto dell’impegno e del sacrificio quotidiano”.

Di Matteo in questi anni, dall’ingresso in parlamento del M5s, è stato sempre accostato alla politica. Nel 2018, alla vigilia delle elezioni Politiche, sembrava il preferito dai grillini per occupare il ruolo di Ministro dell’Interno. Manco della giustizia. Ma solo nel caso di un governo monocolore, che poi non s’è concretizzato. Fu il Guardasigilli Bonafede, però, a rimetterlo nel sacco qualche mese dopo, quando gli preannunciò la nomina al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, salvo rimangiarsela nel giro di 12 ore. Ne scaturì un pessimo spettacolo nel programma di Giletti: “Non faccio illazioni – disse il pm -. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia. Però è un fatto che abbia cambiato idea nel giro di 12 ore, tra un lunedì sera e un martedì mattina. E quel che non posso accettare, è che si metta in discussione la mia lealtà”. Poi, nonostante il tentativo del M5s di ridurre tutto a un “equivoco”, sbottò di nuovo: “Da cittadino sarei preoccupato per un ministro che in un momento così delicato e con un magistrato così esposto si lasciasse convincere e tornasse indietro. Se chiamarmi e poi cambiare idea è stata una sua valutazione autonoma, non lo so”.

Ecco cos’era successo. Bonafede gli offrì due incarichi: direzione delle carceri e direzione degli affari penali al ministero. Il primo, incarico operativo e di prima grandezza. Il secondo, subordinato a un altro magistrato. “Era un lunedì sera. Mi disse solo che avrebbe preferito avermi al Dap e di decidere presto perché dopo due giorni ci sarebbe stato un plenum del Csm, ancora nella vecchia formazione e se avessi scelto il Dap, avrebbero potuto deliberare in giornata di mettermi fuori ruolo”. Il mattino dopo, quando Di Matteo varcava le porte del Ministero, l’aria era già cambiata. Bonafede aveva scelto un altro. “Perché sia avvenuto non lo so e non l’ho chiesto: se ci siano state pressioni politiche, se da parte di qualcuno dei miei colleghi o se da ambienti istituzionali”. C’era stata, senz’altro, una sollevazione dei mafiosi: “Cinquantasette boss al 41 bis del carcere dell’Aquila chiesero rapporto al magistrato di sorveglianza, per annunciare che se fosse passato Di Matteo al Dap, sarebbe esplosa la protesta”, raccontò lo stesso pm a La Stampa. Da qui l’illazione, sempre smentita, su Bonafede e la mafia. Da qui l’ennesimo treno perso, a cui se n’è aggiunto un altro: il Quirinale.