La rielezione di Mattarella è una pesantissima eredità sulla credibilità dei partiti e dei politici di questo Paese. “Hanno barattato sette anni di Quirinale con sette mesi in più di governo, di legislatura e di stipendi”, ha detto la leader di Fratelli d’Italia. Se Meloni parla di un centrodestra da rifondare, molte delle responsabilità appartengono a Matteo Salvini, kingmaker preso dalla strada, e incapace di produrre un passo avanti in sei giorni di trattative estenuanti. Aver fatto credere a Berlusconi di essere un profilo “utilizzabile” per il Quirinale, si è rivelata una mancanza di rispetto, innanzi tutto, per la storia del Cav. in qualità di vero federatore del centrodestra. Aver bruciato, con la complicità dei Cinque Stelle, un nome di prestigio come quello di Elisabetta Belloni, presentandosi di fronte alle telecamere e spifferando tutto di una trattativa in corso, non è roba da leader. Ma da avventuriero.

Ma qui entra in scena il suo alter ego. L’avvocato del Popolo. Il quale, in assenza di una sponda reale all’interno del Movimento (guai, però, a farglielo notare: s’è incavolato di brutto), ha deciso di ripiegare sull’asse gialloverde. Parliamo di Giuseppe Conte. La proposta di Frattini, condivisa col leader della Lega, è abortita in una notte. Quella della Belloni – “una donna al Quirinale” – in meno di una sera. Un’imbeccata ai cronisti che ha lacerato profondamente l’anima dei Cinque Stelle, accentuando la distanza con Luigi Di Maio. La missione ‘elettorale’ dell’ex ministro Fraccaro da Salvini, per cui si era pensato di espellerlo dal Movimento, è il classico esempio di una nave in tempesta senza nocchiero.

Enrico Letta era quasi salvo, soprattutto per la misura delle parole, finché non si è messo a esibire pollicioni e sorrisi durante la proclamazione di Mattarella. Come se quello fosse il suo successo personale e non, invece, il frutto di un immobilismo di cui il Partito Democratico è stato l’interprete peggiore. Non aver spiccicato una parola, non significa essere dalla parte della regione. Significa, semmai, non aver ipotizzato conclusioni migliori. Non una proposta si è levata dal Nazareno, solo ‘no’. Mattarella è stato l’esito più scontato. Quello più acclamato e deprimente al tempo stesso, con tutto il rispetto per il presidente, che si conferma uomo delle istituzioni.

L’ex esponente della Dc, a lungo recalcitrante, ha dovuto soccombere alla nullità dei partiti. Ma non è tutto oro quel che luccica. La sua permanenza al Quirinale è figlia della decisione assunta un anno fa di affidare a Draghi le chiavi del Paese per trascinarlo a forza fuori dall’emergenza: “Oggi Mattarella si trova ostaggio di quella decisione – scrive Stefano Feltri sul Domani – vittima della logica della necessità che lo aveva spinto a guidare il parlamento da Giuseppe Conte e Draghi. La costruzione dall’altro della maggioranza attuale ha generato poi le evoluzioni successive: la tensione intorno al ruolo di Draghi, adatto al Quirinale ma considerato da troppi inamovibile da Palazzo Chigi, e l’impossibilità di trovare un nome per il Colle senza avvicinare le elezioni anticipate”. Anche il premier non esce indenne da questo tour de force. “Esce dimezzato – secondo Feltri – considerato indispensabile da tutti, certo, ma anche scartato per il Quirinale, trattato più come una polizza per evitare elezioni anticipate e perdita prematura di stipendi e pensioni parlamentari che come una risorsa della Repubblica da utilizzare nel modo migliore”. Possiamo dirlo o no che hanno perso tutti?