C’è la storia, condita da trascorsi comuni e pennellate di suggestione. E c’è l’attualità: Totò Cuffaro, Raffaele Lombardo e Renato Schifani – il bello, il brutto e il cattivo che da vent’anni muovono i fili della politica siciliana – potrebbero correre insieme per le prossime Europee. Piccolo refuso: “vorrebbero”. Altrimenti non si spiega il coro angelico e il battito di mani con cui la DC e gli Autonomisti, ovverosia i partiti dei due ex governatori, hanno salutato le parole dell’attuale presidente di Forza Italia. Il quale, nelle vesti di uomo-squadra, ha consegnato a Tajani, che di FI è segretario, la propria mission da qui al congresso di primavera: “Guidare la transizione da partito leaderistico a partito pluralistico”, ma soprattutto “racchiudere sotto lo stesso cielo tutti coloro i quali la pensano come noi, soprattutto per un appuntamento, come quello delle elezioni Europee, in cui ci si misura con il voto di preferenza”.

E mentre Tajani dovrà arrabattarsi in qualche modo, per non cedere alla tentazione di imbarcare grillini e renziani delusi, in Sicilia Schifani ha vita facile. Perché in quell’enorme suk che è l’Assemblea regionale, il calcolo elettoralistico sfugge al rigore della logica. E Forza Italia, che si insinua perfettamente nelle lande dell’astensionismo, e continua a collezionare successi dalla stagione del 61-0 (ha preso il 15 per cento alle Regionali di un anno fa), già lavora all’enorme contenitore che possa inglobare tutti. Dagli azzurri, quelli freschi e quelli stracotti, passando per i decani della politica.

Cuffaro e Lombardo viaggiano sempre in coppia – al bar e sui giornali – anche se a stento si sopportano. Nell’ultimo periodo, però, il meccanismo di mutuo soccorso, generato dalle vicende giudiziarie di ognuno, ha prodotto un affetto quasi solidale. Sfociato nell’incontro del 4 maggio scorso, quando Lombardo si presentò in sala, al Politeama di Palermo, per la proiezione di ‘1716’, il film che trae spunto dai giorni di detenzione di Cuffaro a Rebibbia. Per favoreggiamento alla mafia. La riabilitazione politica e personale di Totò, in questi anni dopo il carcere, s’è intrecciata col calvario di Lombardo, dimessosi nel 2012 da presidente della Regione siciliana per difendersi dall’accusa più infamante: concorso esterno in associazione mafiosa. Sono serviti undici anni, e un processo ripetuto due volte, per attestare la sua innocenza da parte della Cassazione. Fino al febbraio scorso, come accade non di rado agli imputati di casa nostra, è stato messo alla gogna e azzannato con ferocia: “I pentiti che mi accusavano? Un pozzo d’ignoranza e di contraddizioni”.

Ma anche Schifani soffre della sindrome degli appestati, che appartiene agli altri due. E’ attualmente coinvolto in uno dei filoni dell’inchiesta Montante, su cui pende l’ombra della prescrizione. L’ex presidente del Senato, che ha vinto le elezioni pochi mesi fa, porta sulla propria pelle le cicatrici di alcune indagini per mafia sfociate in archiviazioni continue (Riina, durante un colloquio con la moglie e le figlie nel carcere di Opera lo definisce “una mente”). Ed è attualmente imputato per aver violato il segreto d’ufficio e messo al corrente Antonello Montante, ex paladino dell’Antimafia, condannato a 8 anni in appello per corruzione, sull’inchiesta che ha portato al suo arresto e a quello del colonnello dei carabinieri, Giuseppe D’Agata. Schifani, che ha scelto il rito immediato, si dice innocente. E, non bastasse, continua a reclamare un posto tra gli ideatori del carcere duro e del 41-bis, della lotta alla mafia e così via. Oltre che del “lodo” che voleva salvare Berlusconi dai processi mentre operava da premier. Qualche giorno fa, ispirato dallo stupro di Palermo, e con sorpresa del mondo garantista, ha richiesto l’allungamento dei termini della carcerazione preventiva. Cose che si dicono.

Questa è la storia di tre uomini che alla vigilia delle ultime Regionali siciliane hanno intrecciato i vizi e condiviso le imperfezioni. E hanno disposto che un pezzo del proprio destino politico appartenesse anche agli altri due. Da una parte c’è il “bello”, Totò Cuffaro, diventato autore sopraffino di libri straletti; dopo aver scontato a testa alta la pena del carcere – cinque anni a Rebibbia – è diventato strenuo difensore dei diritti dei detenuti, relatore di convegni e, nonostante gli schizzi di fango, non ha desistito dall’obiettivo primario: fare politica. E chissenefrega di Victor Hugo, secondo il quale “detenuti si rimane tutta la vita”. In questa eterna convalescenza Cuffaro ha sopportato l’astio, le rimostranze dell’antimafia chiodata e di quella di professione, ed è volato in Burundi per assistere madri povere e bambini sfortunati, e costruire ospedali. Poi ha consolidato la propria, inesauribile fonte di consenso, rimettendo in piedi la Democrazia Cristiana (anche se il simbolo dello scudo, come stabilito da un giudice, rimane all’Udc) e ottenendo due assessori d’area. Il Tribunale di Sorveglianza di Palermo ha cancellato, all’inizio di quest’anno, l’interdizione dai pubblici uffici. Ultimo ostacolo per il ritorno in campo – quello vero – da candidato a qualcosa. Lui dice che quel tempo è archiviato, che non ci pensa nemmeno, che il futuro è dei giovani e delle donne. Ma l’ambizione resta ambizione anche fuori dalle istituzioni.

Il “brutto” è invece Raffaele Lombardo. Nelle vesti del catanese imbruttito – rigido, a tratti ruvido e poco empatico: qualità che che amici e avversari gli riconoscono – ha costruito l’impero autonomista che ha retto l’onda d’urto della sua assenza (oggi un assessore nel governo della Regione e quattro deputati in tutto). Lombardo è anche il più abile degli strateghi, come appare da un pezzo d’antiquariato del 2010, scritto da Carmelo Caruso per Live Sicilia: “Per Lombardo il corpo non è altro che messaggio, nel suo viso c’è la cartina geologica siciliana. Ogni ruga sul volto è un pericolo di smottamento, e lui un terremotato che ha già costruito altrove (…) Egli è un esempio di genetica politica, un embrione da laboratorio che muta forma continuamente”. L’ex governatore di Grammichele si adatta e riadatta alle situazioni: ha sposato la Lega con un patto federativo e ci ha divorziato poco prima delle Politiche; stava per chiudere con Meloni un accordo le Europee, poi è rispuntato Schifani col partito “inclusivo”. Cerca spazi ovunque ed è un fenomeno nel trovarli. Ci sa fare, anche se non le manda a dire.

La cosa peggiore è trovarselo contro, perché sai che ti condurrà (quasi sempre) alla sconfitta. Per dirla ancora con Caruso: “E’ facile cedere l’anima a Lombardo perché come dicono i consiglieri di paese in quota Mpa (bocche di verità e schedati in voti), con lui si può diventare qualcuno. Il metodo Lombardo attecchisce perché tira fuori il talento-l’intrallazzo politico e ricompensa”. Laddove non intravede il talento, e neppure l’intrallazzo, pone un paletto. E’ lui che impedì a Cuffaro, dopo la fine del suo governo e la sciagura dei cannoli a palazzo d’Orleans, di veder realizzato il sogno dei termovalorizzatori. La realizzazione dei quattro impianti, per cui era stata celebrata una gara da un miliardo, venne revocata. E’ lui, con mille espedienti (a partire dal piano dei rifiuti), che rallenta Schifani nell’impresa di costruirli. Espedienti sensati, per carità. E – perché no? – un filino ideologici.

Se c’è da trovare la quadra, però, ci si assetta tutti insieme. Con Cuffaro e, gioco forza, con Schifani. Il “cattivo”. Non è un riferimento alla persona né al temperamento. Piuttosto a certi spigoli del carattere e alla sua inconcludenza. Con una politichetta fondata sui rancori – per Micciché e non solo – s’è costruito il proprio impero minuscolo dentro Forza Italia; con un’accondiscendenza, un po’ rassegnata, ai patrioti di Fratelli d’Italia, ha consolidato il suo regno al governo. Se uno non gli piace, è fuori (coi meloniani valgono le eccezioni). Se non gli pesta i piedi, invece, può funzionare. La dimostrazione plastica arriva da Marcello Caruso, fino a qualche tempo fa commissario provinciale (manco regionale) di Italia Viva, e divenuto in pochi mesi, “ombra” e cerimoniere del presidente; capo di gabinetto e di partito. Forza Italia, questa volta. Per quale abilità particolare? Non si sognerebbe mai di contraddirlo.

A Schifani in questi mesi da governatore siciliano è mancato il colpo d’ala, l’intuizione, la riforma. Ha affrontato i temi alti – dal caro voli in giù – senza arrischiarsi nel labirinto dell’amministrazione. Ha vissuto in conflitto col parlamento dopo averlo elogiato; ha alzato muri con l’opposizione dopo averne testimoniato l’importanza; ha provato a spegnere le polemiche dopo non esserci riuscito con gli incendi. Ha gestito Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione, come Palazzo Giustiniani. Con quel profilo un po’ diplomatico un po’ incerto, di quelli che non lascia traccia. Tranne che per le liti (non banale quella col ministro Urso sull’aeroporto di Catania). E i soliti rancori. Ne ha per tutti, tranne che per l’ex vicepresidente della Regione, l’avvocato Gaetano Armao. Un tempo fidatissimo collaboratore (e assessore) di Lombardo. In pochi mesi è uscito da Forza Italia, ha abbracciato Calenda, s’è candidato contro di lui alla Regione, e alla fine è stato riaccolto con gli onori del caso: consulente sulle questioni e i fondi extraregionali per 60 mila euro l’anno, ma soprattutto presidente della nuova Cts che rilascia le autorizzazioni di carattere ambientale.

Oggi, e qui ri-precipitiamo dalla storia all’attualità, Cuffaro, Lombardo e Schifani rappresentano il grande blocco dell’abitudine. Del centrismo. E forse del moderatismo. Un’associazione corporativa per affermare la politica dei valori – così dicono – e contro la gogna dei giudici. D’ispirazione garantista, ma dal fare deciso. Per cambiare tutto senza cambiare granché. Per riaffermare la bravura dei politici di professione. D’altronde sono sempre stati loro, e continueranno ad esserlo, i burattinai della Sicilia. Solo che è diventato un po’ troppo dispendioso farlo da soli: per questo hanno scelto di riunire le forze: Strasburgo, stiamo arrivando.