“L’ultimo vergognoso carrozzone della Prima Repubblica”, per dirla col reverendissimo Nello Musumeci, si chiama Esa. L’Ente per lo Sviluppo Agricolo, istituito nel 1965, è una delle tante società partecipate della Regione Sicilia che il governatore e la sua giunta avevano deciso di chiudere. L’affondo di Musumeci, siamo a inizio luglio, rischiò di incrinare una volta per tutte i rapporti all’interno della maggioranza. Rea, più dell’opposizione (anche se mai come in questa legislatura il confine appare labile), di rallentare il processo riformista del suo governo. Di quella soppressione, pur di salvaguardare la tenuta dell’esecutivo, non rimase traccia. Fino ai giorni nostri.

E’ pronta, infatti, una proposta di emendamento che potrebbe entrare di prepotenza nella manovra che dal 27 approderà a palazzo dei Normanni per la discussione. E che al posto del falcidiato Ente di Sviluppo Agricolo (considerato non al passo coi tempi) prevede l’istituzione di un nuovoDipartimento Regionale per i Servizi in Agricoltura, in cui confluirebbero funzioni e lavoratori (chissà quanti degli attuali 700) dell’Esa. Ma questo è solo il profilo migliore di un pasticcio siciliano in piena regola. Che investe molti tronconi di un sottogoverno paludoso che in tanti, anche dalla maggioranza, hanno preso a contestare con veemenza (vi dice niente la battaglia fra Miccichè e il presidente di Sas, Caruso?).

Quando le cose non funzionano ci prova la politica a rimetterle in sesto. Ma è vero anche il contrario. Nicola Caldarone, che il governo Musumeci aveva nominato presidente dell’Ente di Sviluppo Agricolo, era riuscito a far approvare in consiglio d’Amministrazione dieci bilanci in sette mesi. Sul più bello è stato mandato a casa. O, mutuando il politically correct che va tanto di moda, è stato invitato a dimettersi. Musumeci, infatti, aveva deciso di mandare a dirigere l’ente da uno dei suoi fedelissimi (qualcuno sussurra che “i patti erano questi”). Ma dal 25 ottobre, data in cui Caldarone presentò le dimissioni, si rincorrono i fantasmi. Fuori dalla sede centrale di un organismo che garantisce 50 mila euro lordi al suo presidente (25 mila se sei un dipendente della Regione, cioè non più di 800-900 netti al mese) c’è tutto, fuorché la fila.

Qui la sciagura è doppia. La staffetta politica tra un esponente di Forza Italia (il partito di Caldarone e Miccichè) e uno di Diventerà Bellissima (quello di Musumeci) – giustificabile in un contesto di equilibri da salvaguardare, ma potrebbe sembrare anche una lotta di potere – avrebbe avuto senso se nessun altro, dal governo, avesse avanzato l’idea di sopprimere (ancora) l’Ente di Sviluppo Agricolo attraverso l’emendamento di cui sopra. Alla luce del quale, la “cacciata” di Caldarone, che non può essere sostituito in un arco di tempo così breve, appare grottesca.

Gli altri due membri del consiglio d’amministrazione dell’Esa, infatti, non possiedono i requisiti per presiedere, nemmeno pro tempore, un organo di fascia “a”. Per inciso – ed è un inciso che lascia basiti – Calogero Sardo e Giosuè Catania guadagnano ogni anno 40 mila euro a testa e in questi mesi non hanno mosso un dito. Non possono farlo in assenza di un presidente legittimato dai titoli e dal curriculum. Loro d’altronde sono i rappresentanti delle associazioni di categoria e delle cooperative. Così penserà a tutto il commissario ad acta nominato dallo stesso governo che mise alla porta il fido Caldarone: si tratta di Vito Sinatra, che fece già parte della segreteria tecnica dell’ex assessore all’Agricoltura Cracolici. Fa le veci dell’intero Cda.

Riassumendo: il presidente di Forza Italia si è dimesso; i due membri del Cda sono svuotati delle loro funzioni, ma incassano un lauto stipendio; e il commissario ad acta decide per tutti. E l’Esa – perché al danno si unisce anche la beffa – resta nelle mani salde del Pd. Anche i revisori dei conti dell’ente sono stati dirigenti del Partito Democratico a livello locale (da Trapani a Bagheria), alcuni persino di ispirazione comunista. L’unico a rappresentare il governo era Caldarone, e sappiamo che fine ha fatto.

Ma un altro elemento della storia che va spulciato fino in fondo riguarda l’immenso patrimonio immobiliare di Esa, tra i quali rientra l’edificio di Via Libertà a Palermo, l’ultima residenza dei Florio in città. Per affittare il solo pian terreno, una grossa azienda del lusso avrebbe offerto 25 mila euro al mese. Non si poteva. L’assessorato al Bilancio aveva provato a garantirsi un diritto di prelazione qualora l’Esa fosse stato soppresso. Ma non sarà così facile. Ammesso che l’Esa venga posto in liquidazione, i suoi beni verranno usati per pagare, appunto, la liquidazione. Non è come quando svuoti una casa e ti porti via i mobili, per intenderci. La posizione debitoria dell’Ente di Sviluppo Agricolo, infatti, è coperta da un patrimonio immobiliare ingente che non può essere, non inizialmente, merce di scambio.

E in questo lungo giallo, un capitolo a parte meritano i lavoratori: sono 700, di cui 400 stagionali (i cosiddetti “trattoristi”). Guadagnano meno dei dipendenti regionali, ma vengono pagati regolarmente e di recente sono anche tornati buoni, quando le piogge hanno incentivato il dissesto e le alluvioni hanno spazzato via le case. Anche Musumeci, che poco prima urlava ai quattro venti quanto fosse inutile l’ultimo carrozzone della Prima Repubblica, ha rivolto un plauso pubblico a questi lavoratori bistrattati da tutti. Fin quando una legge li sopprimerà. Cui prodest?