Mentre Matteo Salvini riempiva la piazze in Sicilia e la sua giornata volgeva al termine tra Milazzo e Barcellona, con bagni di folla e selfie a dirotto, qualche chilometro più a nord, all’Allianz Stadium di Torino, gli arbitri – da soli – mettevano piede sul terreno di gioco, per dare il via alla prima sfida post Covid del calcio che conta: Juventus-Milan. Un match valido per la semifinale di ritorno di Coppa Italia, che ha sancito il ritorno alla normalità anche per il mondo del pallone. Oddio, si fa presto a parlare di normalità. Dopo l’ingresso in campo della terna, è toccato alle squadre (una per volta), e poi ai membri della panchine, che si sono accomodati a un metro e mezzo di distanza gli uni dagli altri, sconfinando sulle tribune vuote. Tutti – rigorosamente – con la mascherina.

Il pubblico? Manco a parlarne. Giusto la presenza sugli spalti di qualche membro dello staff, e via alle danze. Una partita scialba, la perfetta fotografia di un pallone senza tifosi e di due squadre con le gambe molli, a corto di preparazione. Che avrà garantito ottimi ascolti alla Rai, ma non ha fatto pulsare i cuori di nessuno. Juventus e Milan, dopo l’1-1 dell’andata a San Siro, sono parse quasi condizionate dal clima gelido intorno. Persino l’attaccante bianconero Higuain, durante la partita che seguiva da bordo campo, è stato beccato più volte con lo smartphone in mano dalle telecamere. In mezzo a qualche sbadiglio e pochissime emozioni (tra cui l’espulsione del milanista Rebic e il calcio di rigore sbagliato da Ronaldo), la partita è andata avanti senza scossoni. E pensare che agli ospiti, in inferiorità per quasi tutto il match, sarebbe bastato un gollonzo per guadagnarsi la qualificazione. Ma pretendere il grande salto sfruttando l’unica occasione di serata – una zuccata a lato del difensore Kjaer – sarebbe stato francamente troppo. Così è terminata senza gol e con la Juve che vola dritta in finale (il 17 all’Olimpico di Roma, contro al vincente di Napoli-Inter).

Che senso abbia questo calcio isolato, col prato verde popolato di urla e fantasmi, si fa fatica a capirlo. Ed è ancora più difficile capire la scelta di sbarrare lo stadio a chiunque, mentre a Cefalù Salvini scatta un selfie con la folla, o a Milano – per citare un esempio addirittura più celebre – il generale Pappalardo si fa immortalare nella protesta col popolo dei gilet arancioni. Il lasciapassare vale solo per la politica, e non per il calcio. Che da qui ad agosto, quando si giocherà la finale di Champions League, sarà costretto a specchiarsi sul proprio riflesso. Come fanno i narcisi.