Renato Schifani gioca una partita complicatissima su almeno due fronti: Roma e Palermo. Il primo è riuscito a salvaguardarlo, quasi miracolosamente, cedendo alle impuntature di Fratelli d’Italia, che ha preteso l’inserimento in giunta dei “pupilli” Scarpinato e Pagana, al di là di ogni merito; il secondo, quello che preoccupa di più, ha già fatto inciampare Musumeci: è il rapporto fra governo e parlamento. A Palermo parte, tra pochi giorni, la conta dei danni che, ad esempio, potrebbe provocare la Corte dei Conti pronunciandosi sul rendiconto 2020 e sul miliardo di spese contestate alla Regione. Schifani ha capito l’importanza del momento e ha posto le questioni economico-finanziarie, su cui De Luca è pronto a incalzarlo, in cima alla lista della priorità. Che prevede: “La parifica di Bilancio 2020, con le contestazioni della Corte dei conti su cui la Regione sta predisponendo un’articolatissima difesa; il rendiconto generale 2021 e la conseguente parifica; l’esercizio finanziario del 2022, con il relativo rendiconto; la nuova Legge di Stabilità 2023 e il Bilancio 2023/25”.

Una serie di “rotture” contabili che farebbero venire il mal di testa a chi non ha seguito da vicino l’azione di Gaetano Armao. Basti pensare che nel corso dell’ultima legislatura, all’assessore all’Economia non è mai riuscita l’ardua impresa di chiudere la Finanziaria entro i termini fissati dalla legge (il 31 dicembre), e così ha dovuto ricorrere per cinque volte su cinque all’esercizio provvisorio. Il punto, al netto dei tecnicismi, è un altro: riuscirà Schifani, con questa coalizione tutt’altro che compatta, a sfangare il rischio del precipizio? Riuscirà a imporre una Legge di Bilancio e Stabilità che non tenga conto delle clientele e dei contributi a pioggia dei neo deputati, ma delle effettive esigenze dei siciliani? Le proposte – dalle variazioni di bilancio all’esercizio provvisorio passando per la Finanziaria – arriveranno dalla giunta, ma dovranno superare vari scogli all’Ars: le commissioni di merito, la commissione Bilancio, l’aula, il ‘voto segreto’ (che in passato ha abbattuto interi impianti di legge). E trattare con un parlamento spaccato, che non è disposto a concederti nulla, potrebbe diventare un rischio persino troppo arduo.

Ciò che è utile, ma al momento pare irraggiungibile, è un processo di pacificazione. Le tossine di cinque anni in trincea, soprattutto sul fronte forzista, non sono state smaltite. Anzi, i quattro deputati di FI (compreso Miccichè) che mancano alla conta della coalizione, rappresentano il primo enorme ostacolo. Sarà difficile sanare la frattura finché a palazzo dei Normanni ci saranno Forza Italia 1 e Forza Italia 2. E il percorso delle carte bollate, al momento, rappresenta lo scenario più cupo (e imbarazzante). Ma anche Fratelli d’Italia, almeno la parte ‘tradita’, non smetterà di far notare al presidente le cose giuste e le cose sbagliate. Sia Assenza che Savarino, i fedelissimi (ormai ex?) di Musumeci, non hanno accettato “ricompense” nel Consiglio di presidenza. Saranno deputati semplici, per il momento. Ma escludono di aver agito all’ombra del voto segreto per vendicarsi. Dentro il partito della Meloni il clima da luna di miele non c’è mai stato: anche l’ingresso di Musumeci e la federazione con Diventerà Bellissima venne salutata con scetticismo dai patrioti della prima ora, risollevati da La Russa con l’elezione di Galvagno a presidente dell’Assemblea. I rancori però sono difficili da assorbire, e la strada è in salita.

Dentro il perimetro della maggioranza, inoltre, andranno fatte nuove verifiche. Della Lega in questi ultimi giorni s’è parlato poco. Sulla carta la nomina dei due assessori (Sammartino e Turano) è stata armoniosa e pacifica. Ma Figuccia, ricompensato con l’incarico di deputato questore, sperava di poter entrare in giunta. Poteva essere l’avamposto della ‘vecchia guardia’, di fronte a uno scenario sempre più mutato e mutevole: i due componenti della giunta, infatti, provengono da un passato turbolento. Sammartino ha cambiato partito più volte, Turano alla vigilia delle elezioni. Non sono militanti di lungo corso. Ma alla Lega nessuno, o quasi, lo è: si tratta di un contenitore nuovo per la Sicilia, per nulla granitico, che ha già cambiato nome una volta (in Prima l’Italia). Il vicepresidente della Regione, che ai tempi del suo ingresso nel Carroccio ha trattato direttamente con Salvini, dovrà guardarsi le spalle anche dagli “amici del Nord” (senza indispettire troppo il governo targato Meloni).

Intervenuto alla prima Conferenza Stato-Regioni, Sammartino ha già frenato di fronte all’ipotesi di autonomia differenziata proposta da Calderoli, ministro lumbàrd per gli Affari regionali: “Siamo pronti ad ascoltare, dialogare, parlare, ma la Sicilia e il Sud devono recuperare il gap e i livelli di assistenza e poi discuteremo di autonomia differenziata – ha detto il vice-Schifani, delegato per l’occasione -. Vogliamo capire, approfondire e quindi rivendicare quanto spetta alla nostra Regione. La nostra posizione è prima di tutto quella di tutelare gli interessi della Sicilia”. Poi ha chiesto di procedere “nel rispetto delle prerogative statutarie e con l’impegno, da parte di tutti, a creare le condizioni politiche, sociali ed economiche affinché la Sicilia e le altre regioni del Sud possano superare il divario che le separa dal resto del Paese ed essere, quindi, effettivamente e concretamente concorrenti”.

Ma per risollevare l’economia della Regione (Schifani ha citato pure “la definizione e il completamento degli interventi a valere sul Pnrr; il completamento degli obiettivi previsti dai programmi comunitari la cui chiusura è fissata per il 31 dicembre 2023; l’avvio degli interventi della nuova programmazione 2021/27; la definizione di forme di aiuti per le famiglie e le imprese”) bisognerà contare sull’aiuto dell’aula e delle commissioni. E, ove possibile, delle opposizioni. Dopo un avvio conciliante Cateno De Luca s’è ha già rimesso la corazza, rigettando, con sdegno, la carica di deputato segretario per il suo Pippo Lombardo. “Non mi vogliono nei paraggi. Non vogliono che stiamo lì a spulciare i bilanci, a ficcare il naso. Preferiscono gettarci l’osso dettando le condizioni. Altri si accodano, noi no”, ha detto il leader di ‘Sud chiama Nord’ a Live Sicilia. Aggiungendo che “alla fine, conviene a tutti” andare “d’amore e d’accordo. Ci sono i soldi, c’è il potere. Divisi nell’apparenza, uniti quando si tratta di apparecchiare la tavola”.

Un messaggio chiaro e inequivocabile a Pd e Cinque Stelle (l’opposizione è come Forza Italia: ce ne sono due). Ma anche al governatore, che solo qualche giorno fa, gli aveva teso la meno. Invitandolo a confrontarsi nel merito dei provvedimenti e senza pregiudizi. Questa collaborazione, che pareva possibile nel giorno dell’elezione di Galvagno all’Ars, è subito tornata in officina per un set-up. E potrebbe restarci a lungo. Ma Pd e 5 Stelle, dopo aver conquistato posizioni fra le più ambite (la vicepresidenza dell’Ars al grillino Nuccio Di Paola, la poltrona di deputato questore al dem Nello Dipasquale) non possono prestarsi al gioco degli “stampellisti”. Quell’epoca, per ora, ce la siamo appena lasciati alle spalle. Per avere i voti Schifani dovrà inventarsi qualcos’altro.