Per la seconda volta, a luglio del 1985, fui tra i grandi elettori che scelsero Francesco Cossiga come presidente della Repubblica.

La stessa maggioranza che sette anni prima aveva portato Pertini al Quirinale si ritrovò sull’esponente democristiano, individuato come l’uomo della “conciliazione”, della tregua nel rapporto tra i partiti, quelli schierati a sostegno del governo e quelli dell’opposizione di sinistra.

Dopo alcuni anni, smentendo del tutto quella previsione, diventerà elemento di rottura e di scontro, si metterà contro tutti, contro il partito comunista, con il quale aveva avuto da sempre buone relazioni – vantava una parentela con Berlinguer – e in accordo col quale, da ministro degli Interni, aveva gestito la tragica vicenda Moro, dalla quale era uscito umanamente lacerato e con una pesantissima sconfitta che lo aveva indotto alle dimissioni.

Si scontrerà con De Mita, il segretario della Democrazia cristiana, che lo aveva proposto per la presidenza della Repubblica, gli aveva assicurato il consenso delle altre forze politiche, e che, magari, puntava, se non a condizionarlo, almeno ad ottenere benevolenza.

Tenterà, alla fine del suo mandato, in forme anche improprie, di suonare l’allarme e di richiamare l’attenzione del Parlamento e del Paese sullo stato delle istituzioni, sui rischi che correva il sistema politico e di potere sul quale si era retta, per alcuni decenni, la prima Repubblica.

Sarà preso pure per matto, e forse dei matti aveva la lucida consapevolezza di quello che stava avvenendo.

Nei giorni precedenti l’inizio delle votazioni, insieme a Cossiga, erano stati proposti Forlani e Fanfani. Le riunioni dei grandi elettori democristiani, di conseguenza, furono caratterizzate da discussioni animate e da scontri duri. Non risultava facile scegliere nella rosa e bloccare gli ultimi due protagonisti di primissimo piano, Fanfani in particolare, della storia del partito e del Paese. Non fu facile per De Mita far passare il suo candidato, che certo una storia l’aveva, ma all’interno della sua forza politica non aveva mai avuto ruoli di rilievo e, di conseguenza, non poteva contare su molti consensi.

Muovendosi con notevole abilità e con il prestigio che gli derivava dalla riconferma alla guida della Dc e dal sostegno di una parte notevole della grande stampa e dei cosiddetti poteri forti, De Mita riuscì a trovare su Cossiga la convergenza dei socialisti di Craxi e dei comunisti guidati da Natta che, un anno prima, era arrivato a Botteghe Oscure dopo la morte di Berlinguer.

De Mita colse la voglia di dialogo di tutti, la consapevolezza di dovere cercare un accordo per la più alta carica dello Stato e consentì al partito comunista di uscire dall’isolamento nel quale lo avevano collocato le proprie scelte e l’autosufficienza dichiarata della maggioranza di governo, facendolo rientrare con un ruolo di comprimario nel gioco politico.

Con la tradizionale cautela, che era anche manifestazione di una perdurante ambiguità, Natta si dichiarò “tiepido” su Cossiga, ma disponibile a votarlo. Craxi, che aveva bocciato in modo sbrigativo la evidente propensione di Pertini alla ricandidatura, condizionò l’apertura, quasi un modo per non dire un sì immediato, alla concordia dei grandi elettori democristiani e all’impegno del futuro presidente ad assecondare il processo di revisione costituzionale. La candidatura di Cossiga si consolidò nei giorni precedenti all’apertura delle urne e al primo scrutinio, con 752 voti, la contrarietà del Movimento sociale e l’astensione dei Radicali, si chiusero i giochi attorno al più giovane presidente della Repubblica.

“Eletto Ciriaco … Cossiga”, titolò un importante quotidiano. Si trattò davvero di un successo del segretario del maggiore partito, che uscì rafforzato da quel risultato che, disse, rappresentò il “trionfo della ragione”. Fu un esito positivo per la Dc e per tutti i partiti, che mostrarono di sapere trovare elementi di concordia e di ragionevolezza, per una classe dirigente che giocò le carte proprie della politica, per il Parlamento che mostrò senso di responsabilità e di rispetto dei valori repubblicani.

Era, del resto, un tempo nel quale l’autonomia delle forze politiche era ancora evidente e ciascuna fu in grado di condurre la partita tenendo conto dei propri interessi ma ritrovandosi in quelli prevalenti delle istituzioni. Nessuno attese con il cappello in mano le decisioni di un bizzarro signore, metà politico, metà padrone per cercare un’intesa, per affermare il proprio ruolo e per spendere il proprio prestigio.

La classe dirigente del tempo sapeva imboccare da sola la strada. A volte anche quella sbagliata, ma, ancora per non molto, era in grado di mettere al sicuro le istituzioni dall’“OPA” di qualcuno, di tenerle al riparo dalla frammentazione del Parlamento, dalle divisioni interne ai partiti, dalla vacuità di personaggi privi di storia e di cultura che oggi mostrano di non capire che gli interessi di parte si tutelano al meglio quando coincidono con quelli del Paese, che, per il Quirinale e per Palazzo Chigi, cercano, a quanto pare, due bravi e credibili tecnici che prolunghino il regime commissariale della politica, non essendo in grado di fare da sola, di scegliere al proprio interno, come è normale nei sistemi democratici, la personalità che possa raggiungere il livello più alto delle istituzioni e la guida del governo.