40 a 25. Con questo verdetto schiacciante Schifani aggiunge una umiliazione a quella di sette giorni fa, quando l’Ars, col voto segreto, aveva bocciato la norma “salva ineleggibili” tanto cara a Fratelli d’Italia. Sul Ddl Province, che avrebbe dovuto reintrodurre 300 poltrone e l’elezione diretta degli organi istituzionali (la riforma considerata il fiore all’occhiello di questo esecutivo), i franchi tiratori sono addirittura aumentati: nel centrodestra se ne contano almeno 13.

“Con un presidente così la Sicilia è morta, è finita”, ha detto Gianfranco Micciché mentre il governo, con Schifani in testa, abbandonava l’aula. Galvagno aveva messo in votazione il mantenimento dell’articolo 1, spiegando ai deputati che un’eventuale bocciatura avrebbe affossato l’intera legge. La ribellione silenziosa della maggioranza si è consumata nel segreto dell’urna, ma offre un segnale chiaro di quanto il governo sia inconcludente e il centrodestra martoriato da una guerra intestina che rischia di portare l’Isola allo sfacelo.

Delle tre questioni affrontate nel nuovo anno, la maggioranza ha trovato la quadra solo sulla nomina dei manager della sanità. Si è spaccata in commissione sulla sanatoria per le ville abusive costruite entro i 150 metri dal mare. Non ha approvato la modifica dell’ordine dei lavori, lo scorso martedì, quando FdI pretendeva di trattare prima la norma sugli ineleggibili e poi le province. Tuttavia, col rinvio (temporaneo) di quest’ultimo ddl in commissione, aveva garantito la trattazione della “salva ineleggibili”, per permettere a tre parlamentari di FdI di mantenere il seggio. Ma è andata male per colpa dei franchi tiratori. Oggi il bis, di fronte a un’aula sbigottita e a una riforma “incostituzionale” in partenza, ma che pezzi della maggioranza si erano convinti di condurre in porto grazie alle semplici rassicurazioni verbali del ministro Calderoli.

La riforma delle province era stata illustrata in tutte le salse dal presidente della I Commissione, il democristiano Ignazio Abbate, e sembrava esserci addirittura l’accordo sulla data del voto, da far coincidere con l’Election Day dell’8-9 giugno. Macché. La proposta, entrata a Sala d’Ercole con circa 600 emendamenti sul groppone, è stata clamorosamente impallinata. Ha rappresentato una perdita di tempo intollerabile per una Regione ferma. E finisce per mettere in discussione le salde alleanze all’interno della coalizione di governo: quella fra Schifani e Cuffaro reggeva a stento dopo il clamoroso rifiuto da parte di FI di accogliere l’ex governatore in lista per le Europee (anche se la Democrazia Cristiana, per il momento, promette lealtà); ma anche tra Schifani e FdI, dopo i numerosi incidenti di percorso, sembra mancare quella fiducia necessaria per andare avanti.

E non basta il rammarico espresso da Assenza, il capogruppo patriota, dallo scranno di Sala d’Ercole né il tentativo di buttarla in caciara sull’abolizione del voto segreto (ipotesi già ventilata da Musumeci nel scorso della precedente legislatura): i franchi tiratori di oggi sono diversi rispetto a quelli di sette giorni fa, e molti addetti ai lavori sarebbero pronti a scommettere sulla “vendetta patriota”. Il problema è politico, anche se non tutti nel centrodestra sono pronti ad ammetterlo. E lo stesso Schifani, rinchiuso a Palazzo d’Orleans con alcuni fedelissimi (tra cui Armao), non sembra disposto a fare passi indietro.

Totò Cuffaro, tra i primi a reagire alla debacle, parla di “grande sconcerto”. “Di fronte a partiti di maggioranza compattamente schierati per raggiungere l’importante obiettivo, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, abbiamo registrato, incredibilmente, scelte di segno opposto di diversi deputati della stessa maggioranza. Con la complicità del voto segreto – continua Cuffaro – qualcuno è stato, evidentemente, guidato da ben altri intendimenti e, probabilmente, preoccupato dalla possibilità di restituire ai cittadini la parola sul governo degli enti di area vasta. Sarebbe stato opportuno che chi non voleva il ritorno delle Province lo dicesse per tempo, evitando la vergogna a cui abbiamo assistito oggi. Chi ha votato contro non ha tenuto conto dello stato indecoroso di scuole, strade provinciali dissestate e divenute, a causa dei rifiuti, discariche a cielo aperto, anteponendo l’interesse proprio a quello dell’intera comunità”.

“Lo schiaffone a Schifani sulle Province si è sentito fino a Roma e non può non avere conseguenze. Questo governo deve andare a casa”, ha detto il capogruppo del M5S all’Ars, Antonio De Luca, appena dopo la netta bocciatura dell’articolo 1 della legge sulle Province. “Si tratta  – ha affermato Antonio De Luca – di un risultato anche più clamoroso di quello che immaginavo, anche se avevo sottolineato che questo ddl non era condiviso nemmeno dalla sua maggioranza, ma  Schifani ha avuto l’arroganza di presentarsi in aula e prendere in diretta questa sonora batosta sulla legge che porta la sua firma. Ora tragga le dovute conseguenze e si dimetta, anche perché questa è l’ennesima dimostrazione che questo governo non ha più maggioranza né in aula né fuori da essa”.

“La bocciatura del disegno di legge sul voto diretto nelle Province in Sicilia rappresenta l’ennesima sconfitta, per il governo di Renato Schifani, nel giro di pochi giorni – dice Cateno De Luca -. Lo avevamo detto all’inizio dei lavori che la sua presenza Presidente non avrebbe portato bene. È evidente che l’atteggiamento intimidatorio del presidente Schifani non ha sortito gli effetti sperati. La sua presenza in aula sembra aver contribuito alla disgregazione della sua stessa maggioranza. È giunto il momento di voltare pagina e di scegliere un presidente degno di questo nome. Alla luce di quanto è successo il presidente Schifani non può che dimettersi. C’è di mezzo credibilità della Sicilia. D’altronde lui stesso aveva affermato entrando in aula che si sarebbe dimesso in caso di voto negativo, sia coerente e si dimetta”.