A Palermo non è ancora detta l’ultima parola, anche se la remuntada di Miceli somiglia tanto a una “fantasia” giornalistica per scaldare un po’ la vigilia. A Palermo, quasi certamente, la sinistra perderà. Probabilmente al primo turno. Nonostante i Cuffaro e i Dell’Utri, i processi pubblici e la questione morale, i manifesti bizzarri e l’antimafia chiodata.

A intonare il requiem, con chiara evidenza, è il sindaco uscente Leoluca Orlando. Incapace di fornire un erede alla propria stagione politica e alla propria visione rivoluzionaria. Orlando non ha mai cercato né voluto qualcuno che potesse succedergli. O addirittura che potesse emularlo. L’esaltazione – a tratti sciagurata – del proprio Super-Io, potrebbe riemergere dalle urne fra qualche giorno. Sintomo di un capitombolo annunciato, nonostante il “campo largo” e il civismo, nonostante il Pd e i Cinque Stelle, nonostante Giuseppe Conte ed Enrico Letta, che in questa settimana panormita si contenderanno il primato della coalizione fino all’ultima bracciata.

Per la sinistra, però, potrebbe rappresentare il canto del cigno. L’epilogo di una stagione lunga 42 anni – Orlando venne eletto consigliere comunale nel 1982 ed è stato sindaco sei volte – con tante luci (soprattutto nella prima parte) e troppe ombre (nell’ultima). Orlando, che molti addetti ai lavori hanno ribattezzato un sindaco fuori dal Comune, avrebbe perso il contatto con la città e i suoi problemi. Sarebbe inutile persino riassumerli. I cimiteri, le piste ciclabili, la monnezza. Il traffico, i bilanci, i depuratori. Eppure, come avviene da cinque anni a questa parte, il professore non ci ha fatto caso. Chiuso nella bolla da cui crede di aver sprigionato energie positive e messaggi chiari. In termini di lotta alla mafia (mentre la città impazzisce per il ritorno della DC); in termini di cultura e di accoglienza (viva Iddio); di internazionalizzazione e di sostenibilità. Tutte cose belle, come riassume l’ultimo messaggio ai palermitani, quello dell’encomio di ieri. Dal titolo inequivocabile: “Missione compiuta. Da completare”.

Un’espressione criptica per sostenere la tesi che “a chi molto è dato molto viene chiesto e io ho cercato di dare molto avendo ricevuto molto dai palermitani e dalle palermitane. Grazie per il coraggio civile dimostrato contro il sistema di potere politico-affaristico-mafioso che ha governato questa città – ha ribadito Orlando nell’ultimo video -, grazie per la vostra capacità di indignarvi, grazie per essere stati espressione del cambiamento. A tutti voi mi rivolgo: continuate, continuiamo ad amare questa nostra città”. Questo genere di messaggio, con qualche tecnicismo in più, era stato inserito all’interno di un dibattito di fine aprile a Casa Professa, andato per lo più deserto. Segno che non c’è più connessione fra quest’uomo e chi l’ha amato. Eppure l’hanno amato in tanti, come ricorda nel suo ritratto su Huffington Post Stefano Baldolini, che ripercorre i tratti salienti di una carriera stellare, in cui il sindaco è stato “giustizialista ed ex giustizialista, populista ed ex populista (parole sue). Nemico degli amici, come Leonardo Sciascia che gli diede del “professionista dell’antimafia”, o come Giovanni Falcone, di cui aveva celebrato le nozze con Francesca Morvillo, e che secondo il Sinnacollando, “teneva nei suoi cassetti le prove dei legami tra Cosa Nostra e politica””.

Orlando è stato tutto per Palermo. Forse anche troppo. Ora, invece, è l’ingombrante eredità per una sinistra alla quale non sono bastati pochi mesi di campagna elettorale, l’unione di due forze (Pd e Cinque Stelle), la professione di una nuova fede (in nome della discontinuità amministrativa) per rappresentare un nuovo inizio. Alla destra, per parlarci chiaro, sarebbe bastato esprimere un candidato unitario alla vigilia del voto, l’11 giugno, per partire coi favori dei pronostici. Avverrà anche con Lagalla, nonostante la convergenza raggiunta in extremis e i “parenti” fastidiosi (Cuffaro e Dell’Utri). La vera eredità di Orlando – o, se volete, il lascito finale della sua infinita primavera – è aver riconsegnato la città a quelli che non ha mai tollerato. Alla destra (con dentro persino la Lega).

Lo stesso declino vissuto per molto meno tempo da un altro protagonista, ormai ex, della vita politica siciliana. Quel Rosario Crocetta, simbolo e paladino di legalità, costretto a fare i bagagli e trasferirsi in Tunisia dopo cinque anni alla Regione e fiumi d’incenso sul capo: per aver combattuto la mafia e i mafiosi; per aver tagliato gli sprechi; per aver moralizzato la politica. Pluff. Tutto svanito. Di quella stagione non è rimasto niente, se non il tentativo di creare un “governo parallelo” – come ricordano i procedimenti giudiziari in corso – gestito dagli amici di Crocetta: l’ex capo di Sicindustria, Antonello Montante, è stato condannato a 14 anni in primo grado per corruzione. Beppe Lumia è riapparso solo di recente. Non è passata l’immagine tronfia dell’uomo morigerato e per bene, coi suoi vizi e le sue virtù; ma nemmeno quella del politico affabile e affidabile, giacché la stagione di Crocetta – col senno di poi – ha posto le basi per dieci anni di dominio delle destre (senza centro, per altro).

Crocetta, incoronato a causa della divisione fra Musumeci e Miccichè nel 2012, ha portato sull’altare il primo, rendendo forte anche il secondo. Ha illuso il centrosinistra e anche se stesso (ne è prova la rinuncia a ricandidarsi, nel 2017, dopo aver esasperato i conflitti col Pd e aver cambiato 59 assessori nel giro di una legislatura). Ne ha combinate di ogni, dal punto di vista politico e amministrativo, senza mai tralasciare alcune cadute di costume che hanno segnato per sempre la sua esperienza – politica e personale – e quella dei suoi “seguaci”. Il Partito Democratico, in Sicilia, è reduce da una serie di sconfitte che i dirigenti ritengono – tuttora – figli della stagione di Crocetta e che solo le prossime elezioni Regionali, forse, potrebbero aiutare a smaltire.

Per superare la sindrome di Orlando, di cui le prime vittime sono uomini e donne a lui vicini (ad esempio, il fidatissimo vice Fabio Giambrone), non basteranno le elezioni del 12. Servirà più tempo. Sempre che al prossimo giro, un fresco 80enne non si ripresenti allo striscione del via come l’unico salvatore possibile. L’erede di se stesso in una terra bruciata e arida.