Se questa città ricordasse davvero – e non facesse della memoria un uso noiosamente, barbogiamente, pappagorgiamente retorico (aaah! come tutto era brutto prima! aaah! come tutto è bello adesso!) forse avrebbe ricordato degnamente Tony Vella. Non vi dico nemmeno chi sia stato e cos’abbia rappresentato nella cultura musicale palermitana, se non lo sapete peggio per voi, andatevelo a cercare. Voglio solo ricordarlo trasversalmente. Per una delle sue giacche che spesso rilucevano quanto i tasti del pianoforte e le note che ne uscivano magicamente fuori.

Al Politeama si svolgeva una “tre giorni” di jazz organizzata da Claudio Lo Cascio, c’era tutta la Palermo jazzistica, solisti, band e big band, ore e ore di jam session, mainstream e sperimentazione, free, cool, avanguardia: una di quelle folli utopie che ogni tanto Claudio trasformava in realtà spesso rimettendoci un sacco di denaro suo. Venne il turno di Tony che sedette al piano con una giacca damascata invero degna di nota, faceva più scena la giacca che le sue dita sulla tastiera o la sua chioma argentea anche se la sua esibizione fu assai apprezzata, molto applaudita.

Dopo Tony si cambiò totalmente registro e piccolo e barbuto, anche un po’ curvo, a passetti veloci, si presentò sul palco quel folletto geniale che rispondeva al nome di Piero Costa, infagottato nei consueti un po’ stazzonati fustagni di artigiano/artista monrealese. Suonò una versione tutta sua di «Domenica è sempre domenica» il cui estro reinterpretativo era pari solo alla sua creatività tracimante fuori dai canoni. Mentre Costa si aggiustava il seggiolino, calcolando la distanza che lo separava dai pedali, fu un attimo, uno tsunami sonoro che dal loggione piombò sul palco, un tornado in decibel che fece quasi tremare il busto bronzeo di Garibaldi sopra il proscenio: «Costaaaa, fatti ‘mpristàri ‘a giacca ‘i Tony Vella!!!». Piero non si scompose, attaccò, rimodulò da par suo le note di Kramer, raccolse ovazioni e tornò in quinta dove – narrano in tono di leggenda – Tony Vella gli porse il luccicante damasco nel caso il giovane collega dovesse essere richiamato in scena e, nonostante ne fosse gelosissimo, paternamente gli disse: “Te ‘cca, pigghiatìlla!».