Il populismo che piace al Sud

Luigi Di Maio, Ministro degli Esteri ed ex capo politico del Movimento 5 Stelle, si gode la vittoria del referendum

L’antipolitica e il populismo vincono in tutta Italia, tranne rarissime eccezioni, ma al Sud addirittura banchettano. Nel Mezzogiorno, infatti, il “sì” al taglio dei parlamentari ha fatto registrare percentuali bulgare, di gran lunga superiori al resto del Paese: in Molise, ad esempio, è arrivato a un passo dall’80% (79,89), ma anche in Sicilia il dato è notevole. Il 75,88% dei votanti ha scelto di spedire a casa 29 degli attuali 77 parlamentari dell’Isola. Un taglio netto alla rappresentatività democratica e, secondo alcuni, anche agli sprechi. Fanno peggio, o meglio (a seconda della prospettiva) solo Calabria e Campania, sopra il 77. Ma la Sicilia è anche la Regione col tasso d’affluenza più basso: il 35,39%. Segno che molta gente, ancora una volta, ha preferito rimanersene a casa. Sul divano. Il “regno” consacrato dal Movimento 5 Stelle (avete presenti i famosi divanisti?), che ottiene la seconda grande vittoria da quando è al governo del Paese: prima il reddito di cittadinanza, adesso una bella sforbiciata al Parlamento. L’abbandono delle pratiche clientelari, “sacre” abitudini della Prima e della Seconda Repubblica, in cambio dell’assistenzialismo di Stato.

I grillini nelle regioni del Sud hanno raccolto tantissimo. E non inganni la (tardiva) presa di posizione del Partito Democratico. Il capolavoro di questo referendum porta in calce la firma di Luigi Di Maio, che ha posto alcune condizioni per sedersi al tavolo dell’esecutivo. Prima ha convinto Matteo Salvini, in cambio di “quota 100”, ad accettare il compromesso del reddito di cittadinanza, che, dati alla mano, non ha dato grossi risultati in termini di politiche attive: sono pochissimi i beneficiari che hanno preferito un lavoro al sussidio. Poi ha fatto lo stesso con Zingaretti: andare insieme? Solo alle nostre condizioni… E il M5s ce l’ha fatta: piegando i “dem” alle prerogative del populismo e della battaglia anticasta (strano per il Pd, che ne ha sempre fatto parte); applicando uno strappo alla Costituzione; facendo fuori una massa di politici “arrivisti” – poco importa che nome e che colore abbiano – senza aver messo a punto prima una riforma elettorale, e magari un ritorno alle preferenze. Di Maio, nel giorno più trionfale, s’è attaccato la medaglietta al petto. Anche se i risultati – al netto del referendum – sono stati un massacro.

In questo piano di autodistruzione il Sud ha seguito Giggino alla lettera. Basta analizzare un dato: le percentuali di “sì” nelle dieci città italiane più popolose. In testa alla classifica c’è Napoli con il 74,4%, seguito a ruota dalle due siciliane. Catania, che è la decima per popolazione, sale sul secondo gradino del podio con il 73,7%. Palermo è un tiro di schioppo con il 71,3%. Al quarto posto c’è Bari con il 70,4%. L’ultima del lotto è Firenze con il 56,5%. Sul voto d’opinione, insomma, il M5s ha continuato ad abbeverarsi alla fonte del Mezzogiorno. Peccato che gli altri dati, quelli che stabiliscono chi diventa presidente o entra in Consiglio regionale, diventino frustranti per i grillini. Uno dei pochissimi a commentarli, con grande lucidità, è stato l’eurodeputato di Alcamo, Ignazio Corrao: “E’ inutile girarci attorno, è una disfatta per il M5s – ha spiegato il parlamentare, vicinissimo ad Alessandro Di Battista -. Ha sicuramente retto la coalizione di governo, ma non può essere considerato un esito positivo per il Movimento. Sia in coalizione, sia da soli, i risultati del M5s sono stati tutti peggiori rispetto a quelli di 5 anni fa. Questo apre al nostro interno la necessità di un Congresso immediato e partecipato”.

La vittoria del referendum, pertanto, è da attribuire a Luigi Di Maio, che ha perorato la causa da sempre. La sconfitta nelle Regioni, dato che il capo politico è cambiato, graverà tutta sulle spalle di Vito Crimi, palermitano, nient’altro che un reggente. Affrontare il ‘de profundis’, così, sarà più facile. E sarà anche un modo per scrollarsi di dosso qualche responsabilità. Il M5s, tornando alla politica dei territori, ha fallito praticamente ovunque. Il risultato migliore è arrivato in Puglia, dove la candidata del M5s, che rischiava di far perdere Emiliano, comunque non c’è riuscita: Antonella Laricchia, con due liste al seguito, ha ottenuto l’11,12%. Addirittura peggio è andata in Campania, la patria del reddito di cittadinanza: qui Valeria Ciarambino ha preso 250 mila voti, contro il milione e settecentomila di De Luca. Il M5s s’è fermato al 10%, che è comunque una grande festa rispetto alle percentuali da prefisso telefonico delle regioni del Nord: in Veneto, Enrico Cappelletti non è andato oltre il 3,2%. Anche in Liguria non è bastato l’asse col Pd per consacrare presidente Ferruccio Sansa (che, anzi, è finito a distanza siderale da Giovanni Toti, riconfermato).

Il voto di domenica e lunedì rivela la “doppia faccia” del Movimento 5 Stelle. Capace, da un lato, di riappropriarsi della funzione del “vaffa”: quando c’è da mandare a quel paese – in questo caso una parte rilevante delle istituzioni democratiche – trova sempre l’appoggio e la solidarietà della sua gente. Segno che in questo Paese la politica degli sputi gioca (ancora) un ruolo determinante. Quando, piuttosto, bisogna elaborare o costruire (anche artificialmente, col Pd) una proposta politica, il M5s non riesce più a cavare un ragno dal buco. Addirittura, sparisce. Anche laddove ha fatto man bassa di consensi. Il prossimo test saranno le elezioni Amministrative in Sicilia, il prossimo 4-5 ottobre. Nell’ultima tornata elettorale i grillini si erano pavoneggiati per essere rimasti primo partito, ben oltre il 30%. Ma dato l’attuale ridimensionamento, potrebbero accontentarsi di molto meno: magari un sindaco o due. Il piano inclinato sembra impossibile da raddrizzare. E non basteranno 345 parlamentari in meno.

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