Il triste paradigma dell’impotenza ad amministrare e dello smacco del non sentirsi amministrati sta tutto qui, in poche decine di metri quadri di verde degradato, immiserito, umiliato, violentato: una villetta pubblica non ai margini della città ma proprio nel suo cuore, a meno di un chilometro da Palazzo Reale e dalla Cattedrale, a cinquecento metri dalla Stazione Centrale, a cinquanta passi da uno degli ingressi quasi millenari di Palermo, Porta Sant’Agata, e dunque dall’Albergheria e dal suo mercato storico, Ballarò. Si chiama Villetta “Gianfranco Vitocolonna”, è intitolata (e per lo stato in cui è ridotta si dovrebbe quantomeno chiedere pubblicamente la rimozione della dedica) a quel prefetto che fu anche probo commissario della città in tempi di sicuro più inclementi di questo.

Era un’arena cinematografica, una volta, nel dopoguerra. Pini di bella chioma e grande fusto a vigilare un’isola che separava i palazzi di stile littorio di corso Tukory nati quando il quartiere si riammodernò – tra strade ben alberate e qualche costruzione ancora con vaghi echi liberty – nei primi anni Trenta del secolo scorso per l’inaugurazione del Policlinico e l’arrivo in pompa magna del Duce. Dismessa l’arena, l’area fu tutta verde. Ma scivolò lentamente prima nell’incuria e poi nel degrado dal quale solo di recente avrebbe dovuto salvarla la cura dei cittadini ai quali una decisione del Comune la delegò proprio lo scorso anno. Ma i volenterosi affidatari non avevano fatto i conti con il mercato abusivo dell’usato che circonda tutta l’area, fuori e dentro la porta del XIII secolo, davanti agli ingressi dell’Istituto Universitario di Fisiologia Umana e del Museo Gemmellaro e lungo le strade intorno. Mission impossible.

Il mercato non è regolamentato, occupa in maniera illecita il suolo pubblico, è scarsamente vigilato dalla polizia municipale che, ad ogni morte di Papa, quasi ne inscena una parziale rimozione, spesso è centro di ricettazione (come gli stessi vigili hanno più volte accertato). E’ quella realtà che – in un’intervista televisiva sull’immondizia a Palermo – con termine improvvido e azzardato, il sindaco Leoluca Orlando definì, forse per rivestirla di una vernice multietnica, il “suq di Palermo”. E’ quella stessa realtà che le associazioni per la rinascita del quartiere vorrebbero far regolamentare ma che ormai, a denti stretti, quasi “giustificano”.

La “merce” del “suq”, comunque, sta lì anche la notte perché gran parte dei “commercianti” dorme nelle auto e nei furgoni assiepati ai margini oppure nella villetta stessa, un grande bivacco anche adesso che la stagione comincia a farsi rigida. E dunque reti, materassi, cuscini, divani, poltrone, sedie a sdraio o a dondolo ammassati alla meno peggio sotto gli alberi, le palme nane usate come appendiabiti o stendini (molte ormai sono ormai allo stremo sotto il peso di giubbotti, lenzuola, asciugamani), resti di cene sparsi per terra (dai cartoni delle pizze alle bottiglie di birra, agli ossi di pollo), bidoni per raccogliere l’acqua per uso igienico ammassati intorno al piccolo cippo in pietra che dovrebbe ricordare la memoria di Vitocolonna, gli sportelli di qualche vecchio componibile da cucina (trovato nei vicini cassonetti) addossati ai tronchi imponenti per metter su dei gabinetti di fortuna protetti così – forse in una residua stilla di pudore – dallo sguardo di chi passa o di chi parcheggia ai margini.

Tutto intorno l’ambaradan della merce usata, molta di improbabile restauro, ben lontana anche dalle buone cose di pessimo gusto: piccole librerie di modernariato già a basso prezzo di prima mano, vetrine laccate coi colori più improbabili, specchiere di finto antiquariato, soprammobili di tema mitologico strappati a soggiorni popolari, vecchi lumi orfani d’ogni supporto elettrico, antichi telefoni a disco in bachelite, giocattoli semirotti, peluche spesso nemmeno passati in lavatrice e gli abiti. Gli abiti, soprattutto. Maschili, femminili, d’ogni foggia purché irrimediabilmente fuori moda, lunghi da sera di fodera spacciata per taffetà, giacche da uomo di pluridecennale stazzonatura, cappotti con colli di pellicce sintetiche così tristi che sembrano di animali morti per davvero. E scarpe, tutte appaiate per carità, ma chissà quante volte risuolate, vernici scrostate, tomaie malamente ricucite, tacchi rabberciati. E lavabi, bidet, cessi per chi non può permettersi un bagno nuovo. E su tutto, al grado massimo della mestizia, l’attrezzeria medico-sanitaria servita a chi non è più, dagli sfigmomanometri agli apparecchi per l’aerosol, fino alle confezioni di pannoloni per l’incontinenza timbrati chissà quando dalle strutture sanitarie e mai utilizzati.

La villetta “Vitocolonna” se ne sta di fronte ad osservare questo continuo srotolarsi di teli sui marciapiedi, questo incessante apri e chiudi di scatoli di cartone, questo passeggio sempre più scarso e distratto di clientela spesso più precaria della mercanzia in offerta. E’ anche magazzino – la villetta di corso Tukory – ma offre soprattutto, al di là dei suoi scarni sedili di pietra, asilo, riparo, è camera, cucina e gabinetto. Non ci si portano più i cani. Figurarsi i bambini.