La storia è semplice. Riguarda un premio universitario che, in quanto tale, è al di sopra di ogni sospetto e su cui indaga il maestro Sciascia che poi ne fa cronaca serrata sul quotidiano “La Stampa” di Torino in data 11 marzo 1976, un giovedì di 46 anni fa.

Un “Taccuino” dal titolo “Le onoranze”. Che diventa, infine, pagina eterna di letteratura civile quando Sciascia riversa “la nera scrittura sulla nera pagina della realtà” nel libro “Nero su nero”. In questa raccolta, pubblicata da Einaudi nel 1979, confluiscono decine di articoli sulla vita pubblica italiana, scritti da Leonardo Sciascia tra il 1969 e il ’79.

Quanto basta allo stesso autore per definire l’Italia “un paese senza verità”, di casi mai risolti: dal bandito Giuliano che a Portella delle Ginestre il primo maggio 1947 sparò sui contadini in festa, fino all’Affaire Moro, la cui morte per mano delle Brigate Rosse ancora proietta ombre sullo Stato, sullo Stato di diritto.

Nelle pagine di “Nero su nero” confluiscono anche gli atti relativi al premio in oggetto.

Un premio “riservato ai laureati dell’Università di Palermo, nelle Facoltà di Giurisprudenza, Scienze politiche, Lettere e Filosofia, che abbiano trattato la migliore tesi di laurea su argomenti di interesse giuridico, politico, sociale e storico, riguardanti il pensiero e l’azione dei cattolici in Sicilia, dall’Unità d’Italia, con aderenza agli ideali e all’azione di Bernardo Mattarella” come scrive il Magnifico Rettore dell’Università di Palermo e come riporta fedelmente Leonardo Sciascia, il quale a margine commenta che “possiamo anche fare a meno di intrattenere i lettori sugli ideali e sull’azione di Mattarella, essendo entrambi universalmente noti”.

Ma la storia inizia qualche mese prima, il 18 novembre del 1975, quando – per attingere al testo di Sciascia – “il presidente di un comitato per le onoranze a Bernardo Mattarella scriveva al Magnifico Rettore dell’Università di Palermo che – a seguito delle intese verbali tra loro intercorse – inviava quattro copie dell’istituendo premio di studio intitolato a Bernardo Mattarella e il relativo bando di concorso”.

Maria Pia Farinella con Leonardo Sciascia sullo sfondo

Il giorno successivo, il 19 novembre 1975, il Rettore che come il presidente del comitato “evidentemente non era nemmeno sfiorato dal sospetto che l’istituzione del premio potesse non riscuotere approvazione” – annota Sciascia – si rivolge ai Presidi delle Facoltà di Lettere e di Giurisprudenza in questi termini: “Il comitato per le onoranze a Bernardo Mattarella è venuto nella determinazione di istituire presso l’Università di Palermo un premio intestato a Bernardo Mattarella, per onorare la memoria dell’uomo politico siciliano che per oltre un ventennio ha dedicato la sua opera all’affermazione dell’autonomia regionale e al progresso della Sicilia… Al fine di poter iniziare le pratiche per l’assegnazione del premio in parola, si pregano le SS.LL. di volere deliberare con cortese sollecitudine, inviando a questo Rettorato copia della deliberazione”.

A rispondere fu, per prima, la Facoltà di Lettere che, “dopo aver preso visione dei documenti”, il 12 dicembre approvò all’unanimità, come da verbale, l’istituzione del premio.

Qualche giorno dopo, “nonostante mancasse l’approvazione dell’altra facoltà, quella di Giurisprudenza, il consiglio d’amministrazione dell’Università – scrive Sciascia – approvava l’istituzione del premio sotto specie, si capisce, amministrativa”. Cioè, senza entrare nel merito e benché nello Statuto fosse “rimasto uno spazio bianco là dove avrebbe dovuto trovarsi la cifra relativa al capitale di cui le cinquecentomila lire del premio rappresentavano l’interesse”.

A decisione presa la notizia ovviamente oltrepassò i confini dell’Università e – racconta Sciascia – “qualcuno si preoccupò di far notare ai professori comunisti e socialisti, che dai verbali risultavano presenti e approvanti, la dicitura dello statuto e del bando che avevano approvato”. Il riferimento per Sciascia è a quanto “già appreso dal Rettore sulla più che ventennale operosità di Mattarella riguardo all’autonomia e al progresso della Sicilia”.

Comincia il gioco delle parti. Che di certo incuriosì Sciascia, il quale, scrittore già affermato, acclamato come” coscienza civile della società italiana”, annoverava tra le sue frequentazioni più assidue alcuni professori dell’Università di Palermo. Possiamo immaginare le domande. E le risposte. “Come in una commedia di Feydeau, un giuoco retrospettivo di entrate e uscite, di distrazioni, di equivoci: sulla scena dei verbali, naturalmente”. La cronaca di Sciascia indugia con scrupoloso distacco su dettagli che sono un manuale di antropologia culturale sulla Sicilia e sull’Italia, di ieri e di sempre. Tra chi non c’era e chi, se c’era, era distratto o non aveva capito di che si parlasse e cosa si dovesse approvare.

Specifica Sciascia che “non vogliamo qui dire incredibili le puntuali entrate ed uscite, né che i presenti abbiano capito benissimo e con piena volontà approvato. Si vuole soltanto dire che in consessi di livello intellettuale, morale e ideologico abbastanza alto (almeno per definizione) una deliberazione di grave contenuto può passare come una freccia nel vuoto degli assenti-presenti e dei presenti-assenti”.

La storia finisce quando “davanti a singole dissociazioni e proteste” che non potevano “disapprovare quel che era stato approvato”, il comitato promotore del premio ritira la proposta. “La cosa migliore – commenta Sciascia – a mettere una pietra su tutto, ad evitare clamori, a impedire che le onoranze fossero turbate”.

Una scelta accorta. E accolta “con sollievo di tutti coloro che alla vicenda – attivamente o passivamente – avevano partecipato”.

C’è, poi, una postilla tra parentesi a concludere questo brano di Sciascia: “Questa breve storia abbiamo scritto con intenti edificanti, affrontando difficoltà più grandi e ambiguità più sottili che uno storico per scrivere, mettiamo, sul patto russo-tedesco del 1939”.

E una postilla vorremmo aggiungere anche noi che abbiamo rispolverato questa vicenda, ormai misconosciuta, di più di nove lustri fa, senza accampare nessuna “excusatio” che non sia mera curiosità professionale.

Nel “contesto” narrato da Sciascia l’intestatario del premio, Bernardo Mattarella, politico democristiano, più volte ministro della Repubblica italiana, era già scomparso nel 1971. Era padre di quattro figli: Antonino, Caterina, Piersanti e Sergio.

Due, i minori, i più noti. Nel’71 Piersanti era già Assessore alla presidenza della Regione siciliana con delega al Bilancio. Una carica prestigiosa per un politico in ascesa che nel ‘78 divenne presidente della Regione. Il presidente “con le carte in regola”. Vittima di Cosa Nostra, fu assassinato, in circostanze mai interamente chiarite, il 6 gennaio 1980.

Sergio, Capo dello Stato dal 3 febbraio 2015, negli anni Settanta era professore di Diritto parlamentare alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Insegnava presso l’Istituto di Diritto pubblico diretto dal chiarissimo professore Pietro Virga, maestro di avvocati siciliani e non solo. Attorno a Virga, nello stesso Istituto e negli stessi anni, c’erano docenti come Leoluca Orlando, Vito Riggio e Sergio D’Antoni, anche loro, come i Mattarella, esponenti di spicco dell’impegno in politica dei cattolici siciliani.

Nel risvolto di copertina alla prima edizione di “Nero su nero” Sciascia avverte i lettori di aver preso come modello il “Journal” di Jules Renard per poi essere andato vicino al “Diario in pubblico” di Vittorini. “Pochi – alla Sainte-Beuve – i veleni; al minimo le malignità; discrete le confessioni; nessun ritratto, nessuna registrazione di incontri con persone degne di avere un ritratto”.

Leggendolo oggi, però, affiora, tra le righe dei fatti di cronaca o degli appunti “ordinati secondo memoria”, il “munus” che accompagnò per tutta la vita il ministero di Sciascia, il suo modo di intendere lo scrivere e la letteratura “come la più assoluta forma che la verità possa assumere”.

Ecco, dunque, la perenne ricerca sciasciana della verità oltre la retorica e le apparenze, “la fede nella scrittura”, “un colpo di penna come un colpo di spada”.

C’è tutto Sciascia in questo credere ostinatamente nella ragione in un’isola che lui stesso definisce “refrattaria” a qualsiasi credo, a qualsiasi religione.

Per descrivere il rapporto dei siciliani con la religiosità, Sciascia usava una espressione di Montaigne: “una candela al santo e una al serpente”. E aggiungeva: “dei siciliani si potrebbe dire – per restare attorno al filosofo francese – quel che Sainte-Beuve diceva di Montaigne: che poteva benissimo essere apparso come un buonissimo cattolico, ma il fatto è che non era per niente cristiano”.