C’è una storia che molti miei amici e colleghi conoscono perché gliel’ho raccontata diverse volte e loro, almeno i più malvagi, mi chiedono spesso di risentirla, perché probabilmente sono come i bambini che trovano sicurezza nella ripetitività: e hanno tutta la mia invidia, da ossessivo compulsivo che certi riti (quindi ripetizioni) devo invece evitare.

Nel 1999 durante una riunione di redazione, il caporedattore centrale dell’epoca (pace all’anima sua), infastidito dalla mia insistenza per le nuove tecnologie, sbottò davanti a direttore e condirettore: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che nel giro di pochi mesi finisce”. Amen.

Fedele all’antico detto che tra le quattro parole rischiose – nel mondo, nella vita biologica, nell’intimo del nostro pensiero – ci sono “questa volta è diverso”, incassai il colpo e tacqui. Del resto, a pensarci oggi, in quella riunione c’erano già tutti i semi dell’insano miscuglio tra diffidenza sicula e negazionismo globale. “Internet è una cosa che nel giro di pochi mesi finisce”.

Sempre a pensarci oggi si capisce che i fallimenti hanno origini volontarie e non esiste la convergenza astrale: se aziende che avevano tutti i numeri per resistere alle tempeste o rilanciare alla grande finiscono nella polvere, la pietra angolare di un ragionamento va cercata tra quelle stesse stanze in cui le pietre venivano usate per lapidare (ovviamente è una metafora!) chi quel ragionamento cercava di stimolarlo. Il Giornale di Sicilia in tal senso è un esempio fulgido di resistenza giornalistica rispetto all’insensatezza di una gestione che in un quarantennio ha inanellato le scelte più sbagliate della galassia. Ci sono ancora giornalisti in quel giornale, bravi, appassionati, comunque resistenti. Ma… lasciamo stare il “ma”.

Sempre a pensarci oggi c’è un elemento rituale che irrompe, ahimè, in questo ragionamento. Come vi ho più volte detto sono un cassettista, uno che archivia per combattere l’evanescenza di una memoria fisica che se la batte con quella del pesce rosso. Negli anni del giornale (venti da professionista, più gli altri da biondino) ho sempre tenuto una agenda aggiornata, giorno per giorno, persino ora per ora nei momenti caldi (stragi, polemiche, errori, disastri correlati). Se mi chiedete cosa facevo quel giorno di quel mese di quell’anno sono in grado di rispondervi cosa stavo impaginando e cosa invece non ero riuscito a fare. Con precisione millimetrica.

Ecco, a pensarci oggi sono esattamente 23 anni da quella riunione, da quella frase, da quell’epoca che poteva essere una finestra sul futuro e che invece oggi è solo una pagina di una agenda impolverata.

(tratto da Facebook)