Mai fatto mistero del fatto che il mistero su Elena Ferrante (chi è? chi non è? è uomo? è donna? è moglie di scrittore o lo stesso scrittore sotto le mentite spoglie della moglie? è un alieno sceso da un’astronave?) mi abbia dato sui nervi. Specie quando, al giornale, arrivavano, in prossimità di una nuova uscita editoriale, cinque articoli sul “mistero” e uno soltanto sulla qualità dei suoi libri. Patologica timidezza o astuto marketing, non mi interessava: mi innervosiva. Non più oppresso da incombenze redazionali, da uomo libero in pratica, mi sono chiesto: com’è ’sta Ferrante? E mi sono accostato alla sua produzione più celebre e più fortunata, la saga de “L’amica geniale”, una tetralogia addirittura. Accostato è eufemismo. Ci sono cascato mani e piedi, nella storia di Lila e Lenù che si snoda a Napoli dal dopoguerra ai giorni nostri. Una sindrome da “Bolero Film”, con tutto il rispetto per il giornalismo popolare, un po’ preoccupante per uno cresciuto, da ragazzo, nella temperie culturale degli anni ’70, molta ideologia e bando ai sentimenti. Primo libro, secondo, terzo, alla fine del terzo ho tentato di concedermi qualche settimana di pausa prima di passare al quarto – e che sarà mai, questa dipendenza? – ma ho dovuto cedere, colto da crisi di astinenza.

Bella la storia anzitutto, belli i personaggi grandi e piccoli, bella la scrittura, potente, l’uso ben pensato dei vocaboli (ne conosco trentamila più i sinonimi, sembra avvertirti la Ferrante), bella la descrizione dei luoghi fisici e dell’anima. Insomma, gran bel lavoro. Corroborato nelle mie attenzioni dalla successiva fiction tv di Saverio Costanzo, ottimo esempio di trascrizione per il piccolo schermo e stilisticamente perfetta come il regista ci aveva già abituati con altre opere.

Arriva il nuovo libro dopo qualche anno. Vuoi che non saetti in libreria, vuoi che non schizzi via a comprarlo? Per l’arrivo sugli scaffali de «La vita bugiarda degli adulti» ci hanno organizzato anche le veglie notturne, tipo per gli Harry Potter della Rowling. Disagi di un’adolescente negli anni Ottanta. Stesso tipo di scrittura, scema invece l’adesione alla storia. Ho capito: mi cattura la forma, la tecnica sopravanza la trama, l’espressione prevale sulla sostanza. Però proprio per questo non riesco a focalizzare bene personaggi e vicende. Ho perfino la strana sensazione di non riuscire a vedere la protagonista vestita con felpe e scarpe da ginnastica, me la vedo avviluppata da maglioncini o gonne a godet come Lila e Lenù. Il fatto poi che si arrivi a un finale un po’ a coda di sorcio dopo 300 e passa pagine mi si configura quasi come abuso del tempo altrui.

A questo punto voglio capire chi è stata la scrittrice che da quasi vent’anni vende milioni di copie. E risalgo così alla sua opera seconda, «I giorni dell’abbandono», anno di grazia 2002. Storia dell’improvvisa uscita di scena di un marito che si innamora della jeune fille di un’amica di famiglia chiudendosi la porta di casa alle spalle. Lui se ne va e lei scivola nel baratro e rischia di trascinarvi, novella Medea, i due figli e il pastore tedesco (tanto che quest’ultimo muore per noncuranza della depressa, scusate lo spoiler). Stavolta la forma non mi incanta e nemmeno la sostanza, anzi mi irritano, e molto: un pianto antico perpetuo, un vittimismo che nemmeno le «sepolte vive», un’autocommiserazione insoffribile, una rabbia e un rancore che si riversano in una pornografia di vocaboli ma di quelle stucchevoli, quelle cui si lasciano andare le classi medie quando devono rafforzare, invelenendoli, i racconti. La protagonista incita a una misoginia certo riprovevole (ma così è) che vorresti buttarcela tu, dal quinto piano dove risiede, e già verso pagina 60. Un papocchio simil-psicoanalitico che se arrivi all’epilogo di pagina 211 (stremato) vieni dichiarato eroe del “livre de chevet”. E ti spieghi perché il film che ne ha tratto il regista Roberto Faenza (il Marco Bellocchio che non fui) per il cinema, supportato da una cooperativa di sceneggiatori, con un’attrice come Margherita Buy (metodo Musatti più che Stanislavskij) sia stato prima fischiato a Venezia e poi maltrattato nelle sale.

Avevo voglia di risalire anche a “L’amore molesto” ma dopo questa prova non ne ho più le forze. Per la Ferrante un amore guastato.