Me li sarò magari meritati. Ma nella vita di privilegi non ne ho avuti pochi. L’ultimo, forse il più rilevante: vivo in uno dei posti più belli di Palermo, giusto a fianco del Teatro Massimo, nella piazza dedicata a Giuseppe Verdi. Non mi si fraintenda comunque. Il privilegio non è di stare a lato dello straordinario monumento di Basile. Non sono la vista del suo colonnato, della sua cupola e del suo frontespizio a rendere più serena la mia vecchiaia. Il vero, ineguagliabile beneficio è quello di potere svoltare l’angolo e trovarsi immerso nella più grande “friggitoria” – copyright del direttore di questo giornale – della città, e tra le maggiori del mondo.
Questo è quello che mi si dovrebbe davvero invidiare: l’essere immerso in una enorme cucina, dalla quale si sprigionano tutti gli effluvi immaginabili.
Ché per esserne investito, per sentirli, non solo nelle narici ma anche negli abiti e nell’aria intorno, non sono neppure costretto a farmi largo nello stretto corridoio che rimane in mezzo alla strada tra i tavoli carichi di fritture, sfincioni, panelle, crocchè e cazzilli e di quant’altro di raffinato i maggiori chef del “frii e mancia” riescono ad impastare per stomaci forti.
Basta starsene al balcone di casa, al margine di via Maqueda. E da lì puoi anche fare come quello della favola che, privo del companatico, accostò il suo pane alla graticola sulla quale venivano arrostite delle carni, rubando così il fumo per insaporirlo.
Ché se poi il proprietario della graticola a me più vicina pretendesse la ricompensa, sempre come nella favola, potresti fare tintinnare davanti a lui una moneta, rimetterla in tasca e chiudere il conto.
Dovrei pienamente capire di vivere in un luogo straordinario vedendo torme di turisti dare uno sguardo fugace al Teatro e correre ad immergersi nella via con la più alta densità di distributori di cibo. I visitatori hanno fretta di scoprire le “bellezze” della città, i suoi “monumenti” veri – vai a capire perché l’UNESCO abbia premiato quelli antichi arabo-normanni!
Possono continuare a vedere quelle originali espressioni d’“arte” anche nelle vie laterali e nel corso perpendicolare e se vogliono proseguire, per i mercati del Capo, di Ballarò e della Vucciria. E dopo aver goduto di tutto ciò, magari resta nel visitatore il dubbio se abbia visitato una città europea o una del mondo arabo. Comunque, tornando nei loro Paesi, potranno raccontare le meraviglie fritte o arrostite del capoluogo dell’Isola, del quale, ovviamente, resteranno loro sconosciuti i musei, le chiese e le tracce delle passate straordinarie civiltà.
Il privilegio del quale godo raggiunge il suo apice il sabato sera e nelle vigilie delle feste. In quei giorni agli odori si sommano le urla gutturali e incomprensibili degli gnuri con le loro carrozze e attaccati i cavalli, che Ronzinante, quello di don Chisciotte, al loro confronto scoppiava di salute.
Poi c’è la colonna sonora, le imperdibili canzoni neomelodiche sparate ad un volume così alto che pure Beethoven le avrebbe sentite e forse apprezzate.
Per non essere proprio nimicu di la cuntintizza, tra un effluvio e l’altro, tra un nitrito e un gorgheggio, alla fine rifletto e capisco che rischio di apparire il peggiore dei qualunquisti.
Stai nel cuore della città, con i tuoi privilegi e rimani lontano dai quartieri della periferia, dai sobborghi, dai dormitori. Ché poi quei pochi chilometri sono nulla rispetto alla distanza siderale dal punto di vista umano e sociale. In fondo stai nel centro della città, magari con qualche traccia dell’antico degrado, con i segni della devastazione di scelte sciagurate e la città – centro e periferia – compone un assetto a capocchia, privo di un qualsiasi disegno e in prevalenza frutto dell’improvvisazione, dell’incultura e della speculazione.
Ci sono il centro e tutto il resto. Ci sono i quartieri a margine del centro, senza friggitorie e senza nulla. Senza lo Stato, né quello che alcuni vorrebbero armato e in divisa, per recintare e isolare ancor più i ghetti, né quello delle scuole, dei servizi, dei luoghi di aggregazione, del verde, del lavoro e della speranza. Ma poi cosa vogliono di più? In uno di quei ghetti Vittorio Gregotti, che è stato uno dei maggiori urbanisti d’Italia, ha disegnato strade larghe, palazzi tutti uguali per non confondere la gente, che lì dentro vive ammassata e, piccolo dettaglio, ha dimenticato – lui e insieme a lui gli amministratori della città – tutto il resto. Ha dimenticato che al mattino quella gente si sveglia e vorrebbe trovare qualcosa di accogliente, perfino di bello, in cui creare comunità e relazione. Restano sconosciuti quei luoghi a chi amministra e semmai li scoprono quando vanno a cercare i voti – per lo più non ci vanno neppure allora, ché un galoppino, uno di quelli che conta, lo trovano a fare da intermediario.
Quando poi vieni a sapere che da quei posti escono alcuni con la lama e con la pistola e qualche volta le usano pure, come è capitato di recente a Monreale, stai a chiederti come sia possibile, come possa succedere una cosa del genere.
Ti dai in fretta una risposta, semplice e consolante. Sono delinquenti sbandati, non più controllati dalla mafia che, peccato, adesso non ha il potere di un tempo e hanno scelto di vivere, anziché in via Ruggero Settimo o a Villa Sperlinga, allo Zen o a Brancaccio. Dimentichi o non sai che lì, molti anni addietro, sono stati deportati e recintati e della loro esistenza ci si accorge solo di tanto in tanto con fastidio e con fugace indignazione quando qualcuno di loro fa scrusciu. Allora tutti diventano mala carni. Così, dopo avere scaricato la coscienza ed esserti detto con orgoglio che non sei come loro, continui a vivere, separato e incolpevole.
Incolpevole come quelli che questa città hanno amministrato e amministrano. Se poi sei “impegnato”, uno di quelli che segue con residua passione la politica e dopo una lunga esperienza nelle istituzioni, in un partito di centro, o perché ci credi o perché risulta à la page, ti proclami di sinistra, con qualche ipocrisia, ti domandi come mai questa città abbia perduto identità, storia e tradizione.
Ti chiedi chi abbia scelto le bettole e la munnizza a comporre il suo moderno genius loci. Poco dopo capisci che qualche responsabilità è anche tua, insieme a quelli che nel passato e ancora oggi, usurpando l’appellativo di classe dirigente, sono stati e sono un fascio di incapaci e predatori con la complicità di una borghesia incolta e in parte mafiosa. Sono loro che hanno trasformato quella del Liberty in una città della manciugglia, hanno costruito i palazzoni al posto delle ville di quel tempo e hanno collocato gli scarti ai margini.
I responsabili sono quelli che oggi fingono di amministrare la città, forse senza soldi, sicuramente con scarsa attitudine e competenza. Sono quelli, come i loro referenti regionali, che drizzano le orecchie e danno segni di vitalità solo quando c’è qualche porzione di potere da spartire. Per il resto, quelli del CEP, di Falsomiele e Bonagia e di tutti quegli altri quartieri sconsigliati espressamente ai turisti, che vivano e se necessario si ammazzino tra di loro. Noi non usciamo da casa con la lama e la pistola. Anche loro potrebbero star buoni, frequentare i centri di aggregazione, seguire i corsi di formazione professionale, accompagnare i loro figli agli asili o tenerli nelle scuole a tempo pieno, giocare a bocce o a tennis, o a padel che è così di moda, starsene a chiacchierare sulle panchine dei giardini… Se tutto ciò esistesse. E invece vivono in solitudine, nell’assenza di lavoro e nella privazione della speranza.
E tu te ne resti al centro, tra gli effluvi della friggitoria a dire, come ogni buon qualunquista, che la colpa è loro, di quelli che restano in quei quartieri e trascorrono il loro tempo, anziché a leggere Schopenhauer o Borges o ad ascoltare Schubert, che se ne parli al tuo vicino di casa ti chiede magari in quale squadra giocano questi sconosciuti, a seguire programmi televisivi che instillano violenza e danno il cattivo esempio.
Davvero ho scritto qualcosa che ha il sapore del qualunquismo. Che volete, in tarda età uno che quando poteva fare ha avuto la propria parte di responsabilità, sale sul pulpito e si limita ad impartire lezioni. Come una diva che si rifiuta di imboccare il viale del tramonto.